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I nostri ragazzi: questi (s)conosciuti?
Il cinema che parla dei giovani

Come diventare grandi nonostante i genitori, Classe Z, Non c’è campo, Piuma, Slam – Tutto per una ragazza, Questi giorni, L’estate addosso,Tutto quello che vuoi e Gli sdraiati: nel recente cinema italiano emerge il ritratto di una generazione di adolescenti costretti a vivere alla giornata per una strisciante precarietà non solo o non tanto economica, ma di tipo relazionale, umano, etico e valoriale

Non solo Gabriele Muccino e Federico Moccia, cantori privilegiati dell’età adolescenziale, ma anche autori come Guido Chiesa, Francesca Archibugi e Giuseppe Piccioni si sono recentemente cimentati in quel genere, se così si può definire nell’ambito della post modernità, fluido e poliedrico che viene definito “romanzo di formazione”. Questi “nostri ragazzi”, nel panorama di pellicole che hanno l’ambizione e la responsabilità di raccontarli, hanno tutti delle caratteristiche universali e comuni ad ogni epoca: l’irresolutezza e l’irrequietudine di un’età in rapida evoluzione, la difficoltà di fare i conti con la propria esistenza e le proprie emozioni, ma soprattutto l’incessante e perenne bisogno di sentirsi riconosciuti, se non “addirittura” amati, dagli adulti di riferimento.

Quattro tematiche relazionali

E se tali sono le spinte dinamiche che regolano in termini generali i moti dell’anima dell’adolescente, le declinazioni, le derive e gli sviluppi che prendono corpo nei personaggi si possono raggruppare sostanzialmente in quattro tematiche relazionali, che sono sviscerate da altrettante costellazioni di film usciti tra il 2016 e il 2017: vita scolastica (Come diventare grandi nonostante i genitori di Luca Lucini, Classe Z di Guido Chiesa e il recente Non c’è campo di Federico Moccia), la coppia in attesa di un figlio inatteso (Piuma di Roan Johnson e Slam, tutto per una ragazza di Andrea Molaioli), amici alla prova (Questi giorni di Giuseppe Piccioni e L’estate addosso di Gabriele Muccino) e incontro tra generazioni (Tutto quello che vuoi di Francesco Bruni e Gli sdraiati di Francesca Archibugi).

Come diventare grandi nonostante i genitori ci porta la rappresentazione più ingenua dell’immaginario adolescenziale odierno, che non si sottrae a quella patina favolistica della serie tv Alex & Co, targata Disney Channel, alla quale si rifà: la band musicale dei primi anni del liceo, il concorso stile X Factor, preside e genitori ostili, crisi d’ispirazione, “aiutante magico” nelle vesti di un famoso musicista anglosassone, l’unione fa la forza e tutti vissero felici e contenti. Il twist finale tuttavia rovescia leggermente la prospettiva appoggiandosi sull’ispirazione pedagogica dei “no che fanno crescere”: la preside (una severa Margherita Buy) infatti ha contrastato ogni iniziativa extrascolastica coinvolgendo nel suo piano anche i genitori dei ragazzi della band, per mettere gli alunni nelle condizioni di “cavarsela da soli” e di affermare anche verso il mondo adulto le proprie ispirazioni, conquistando una maggiore aderenza verso la propria identità in costruzione.

Classe Z: altra scuola, altra età, altro esperimento. Nel film di Chiesa il dirigente scolastico (un accigliato Alessandro Preziosi) per l’ultimo anno di liceo istituisce una nuova sezione dove vengono spostati tutti gli elementi borderline che avrebbero abbassato il rendimento delle rispettive classi originarie di appartenenza. E da qui parte una sfilata di diciottenni-stereotipo, che, per dirla nel loro linguaggio, sono: il cyberbullo con seguitissimo canale youtube, la fashion addicted cintura nera di gossip, la dark supponente con derive emo, il pluriripetente muratore della bassa periferia, l’erotomane in preda all’ormone, lo pseudoautistico che non parla mai, e i cinesi integrati dall’idioma romanesco. L’unico elemento distonico in questa logica avversa alla moderna pedagogia inclusiva è il professore di italiano (Andrea Pisani) che si cala proprio “letteralmente” nel suo omologo americano John Keating (L’attimo fuggente, Peter Weir, 1989) non per insegnare, ma per educare, nel senso latino di ex-ducere, ovvero “tirare fuori”, nella fattispecie, i loro talenti e da qui partire per motivarli allo studio.

La riduzione degli studenti a “tipi” umani da un lato rivela in tale estremizzazione la loro profonda insicurezza e il bisogno di essere “riconoscibili”, attraverso marcati stili comportamentali, ma soprattutto “riconosciuti” come esseri umani di valore o, meglio, di dis-valore, dall’altro lato rende il film prevedibile, poiché per gli adolescenti, preda dell’incertezza esistenziale (non bambini/non uomini), la prevedibilità, ovvero sapere che “tutto andrà bene” (frase ricorrente pressochè in tutti i film considerati) è molto rassicurante.

Anche Non c’è campo si basa su un esperimento formativo, questa volta attuato non dal preside ma direttamente dall’istanza narrante: gli studenti romani di una quinta superiore sono costretti a stare senza cellulare per tre giorni in quel di Scorrano (Lecce), dove si trovano in uscita con la docente (Vanessa Incontrada) e dove appunto “non c’è campo”. I ragazzi di Moccia sono quasi tutti pieni di “ansia”: per il fidanzato che è a Roma, per i tradimenti di quello in gita, per i nuovi amori che tocca dichiarare dal vivo e non via whatsapp, per una solo sopita identità sessuale transgender. Anche in questo film lo scatto verso una crescita personale sta nel recupero di una relazione autentica con sé stessi, attraverso lo sguardo dei compagni occhi negli occhi e non attraverso lo schermo di un telefonino.

Continua a leggere l’articolo di Elena Grassi su Filmcronache n.4/2017
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Sull'autore

Elena Grassi

Laureata in Scienze delle comunicazione all’Università di Trieste, ha conseguito il master in Educazione audiovisiva e multimediale e il Dottorato di Ricerca in Scienze Pedagogiche all’Università di Padova. Giornalista e critico cinematografico, lavora da educatore audiovisivo per enti pubblici e privati ed è consulente per l’Acec del progetto Junior Cinema.