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Alice Rohrwacher: “Il mio mondo contadino sulle orme di Olmi”
Intervista alla regista di LAZZARO FELICE, vincitore del Premio migliore sceneggiatura al 71° Festival di Cannes

Intervista alla regista di Lazzaro felice, fresco vincitore del Premio per la migliore sceneggiatura al 71° Festival di Cannes. “Un film spirituale ma fatto di realtà concrete, di sudore, di corpi, di odori, delle fatiche di un luogo arcaico ma neppure cosi lontano da noi. Una fiaba su un ragazzo che ha una fiducia incondizionata nel prossimo”.

 

“Un film molto libero”, lo ha definito quella Alice Rohrwacher che offre al pubblico la sua terza prova registica, Lazzaro felice, con l’abituale grazia sposata alla tenacia. Che è, poi, ciò che la contraddistingue, ciò che l’ha fatta conoscere da subito. Fin dall’esordio nel 2011 con Corpo celeste (selezionato al Festival di Cannes nella Quinzaine des réalisateurs), suggestiva storia della tredicenne Marta che arriva dalla Svizzera nella degradata periferia di Reggio Calabria e, avvicinandosi all’universo parrocchiale, scopre ignoranza e arretratezza, continuando con l’opera seconda, Le meraviglie, girato nel 2014 (Gran premio della giuria sempre a Cannes), con quattro sorelle protagoniste strette in un mondo a parte da un padre che non vorrebbe che nessuno di loro si spingesse oltre il casale, e storia anche di come il mondo reale, brutale e volgare, macella ogni possibile sogno di isolamento incontaminato.

Macella anche i sogni dei contadini protagonisti di Lazzaro felice, tenuti segregati pure dopo la fine della mezzadria e poi finalmente liberi di scappare, di andare verso la città, dove non troveranno nulla di ciò che conoscono, forse nulla di ciò che vorrebbero. Ma tornare indietro non si può, perché nessuna storia di nessun mondo può invertire la rotta. Come dire che la Rohrwacher, partendo sempre da un “altrove”, da universi che risiedono in anfratti spazio-temporali indefiniti, riesce a raccontare quasi tutto della contemporaneità. Vera, appunto brutale, appunto volgare, pronta a schiacciare chi brutale e volgare non è, non sa essere o non vuol essere. Ma lo fa con una grazia sempre senza limiti, con una finta fragilità che diventa immensa forza narrativa: “Racconto la fine del mondo contadino e la metropoli, l’innocenza perduta e la violenza delle grandi città. La bontà, anche, l’ingenuità, oggi rarissima in tempi complessi di intrighi e bugie. Nel contempo, però, il racconto, al di là della sintesi e del simbolo, è la storia di un’umanità tangibile, realistica, di un ragazzo che potrà non farcela”.

Così la regista, premiata al 71° Festival di Cannes per la migliore sceneggiatura, racconta il suo Lazzaro felice, di fatto “un inno alla bontà che esiste ancora anche se non si vede”, sulle orme del cinema di Ermanno Olmi, interpretato oltre che dai giovanissimi Adriano Tardioli e Luca Chikovani, da interpreti noti (Nicoletta Braschi, Sergi Lopez, Alba Rohrwacher, Tommaso Ragno, Natalino Balasso, Gala Othero Winter e Leonardo Nigro) e ignoti, molti dei quali non professionisti scelti tra le quasi duemila persone incontrate per provini e audizioni.

Il suo luogo di partenza e di esplorazione, quasi il suo filtro (e non solo in questo film), è un mondo basico, quasi arcaico, anche quando non è un mondo contadino. È per scelta un mondo non collocato e collocabile nel tempo, che, perciò, riesce a parlarci dell’oggi e di ogni tempo?

Direi che è una scelta che mi permette sguardi universali. Nei miei film precedenti, ma anche in questo ultimo, in cui si parte da un mondo rurale italiano dove dei contadini, uomini, donne e bambini, sono sfruttati da una marchesa, una donna cattivissima, e tra loro c’è il giovane Lazzaro, buono e sempre disposto ad aiutare tutti, che fa amicizia con il figlio della marchesa. Ma la voglia di non fissare paletti spazio-temporali sta anche nella mia scelta di narrazione che va avanti, come anche in altri miei film, attraverso salti nel tempo. Direi che le date precise, le coordinate temporali rigide non mi interessano e non credo che aggiungano qualcosa alla storia. Io cerco sempre di far dimenticare allo spettatore il tempo che passa, di trasportarlo in un tempo unico, in cui il presente è passato e il passato è presente, perché in questo modo io posso parlare di cose che esistono da sempre e sempre esisteranno. E arrivare, appunto, all’universalità del linguaggio. In Lazzaro felice abbiamo quasi inventato un’epoca. Però a un certo punto dovevamo contrassegnarla e allora ho inserito nella sceneggiatura Tancredi, un ragazzo dei giorni nostri che ascolta la canzone dell’estate, il brano Dreams Will Come Alive dei 2 Brothers on the 4th Floor. Poi c’è Bach che ritorna nel finale ed evoca la presenza di Lazzaro.È la prima volta che uso la musica diegetica.

Mentre è tornata all’uso del formato Super 16…

Ho voluto anche qui il Super 16, formato che uso dal mio primo film, Corpo celeste. Allora era normale e nessuno ci faceva caso, oggi no. Ma per me, che sono nata nell’era digitale, la pellicola è una vera scoperta. È qualcosa che mi ha incantato, certo non è molto economica, ma la userò finché potrò. Per di più è uno strumento che mi aiuta anche ad avere dei limiti, a sapere cosa non mi è possibile fare, dunque per me è un supporto importante.

L’ha stupita l’accoglienza molto calda al Festival di Cannes? E, in generale,che cosa si aspetta dal pubblico?

Gli oltre dieci minuti di applausi al termine della proiezione, al Grand Theatre Lumière di Cannes, mi hanno sinceramente stupito e commosso. Anche perché per me, e per chi lo ha realizzato, questo film era un’incognita, l’abbiamo finito poco prima dell’arrivo sulla Croisette. È stato un po’ un azzardo, perché è un film che è uscito fuori così come ci è venuto. Per gli altri ho avuto più tempo per limare, sistemare, dare una chiusa finale. Ma in tutti i casi direi che non so mai cosa aspettarmi dal pubblico.

Da dove arriva l’ispirazione?

Viene soprattutto dal tanto cinema con cui sono cresciuta e che ho amato. Potrei dire da Pasolini, Olmi, dai Taviani, da Vittorio De Sica, ma nulla di ciò che c’è nei miei film è cosciente. Questi autori fanno ormai parte di me, li cito senza saperlo, inconsciamente. Mentre sono consapevole dell’importanza che per me ha avuto una scrittrice di favole per bambini che adoro, Chiara Frugoni, e, certo, anche da quel san Francesco che c’è in questo film ma non si vede mai. Ho letto molto su san Francesco, anche se la storia del lupo presente nel film arriva dal libro della Frugoni. A questa ho aggiunto la favola che racconta Antonia adulta, quella di un lupo che non fa del male perché è troppo vecchio per farlo.

In questo tipo di approccio, in questa sotterranea, ancestrale religiosità quanto si sente vicina ad Ermanno Olmi?

Il mio film è in qualche modo religioso, ma in senso pre-religioso, nel senso preistorico del termine. Essendo questa una sorta di storia di un santo, vicino a san Francesco, Lazzaro felice è un film spirituale ma è fatto di realtà concrete, di sudore, di corpi, luoghi, odori, fatiche di un mondo arcaico ma neppure cosi lontano. Più che un passato remoto, un passato prossimo dentro cui cinquantaquattro contadini sono stati ritrovati in un residuo di stato feudale. Questo tipo di mondo e la spiritualità essenziale forse mi avvicinano ad Olmi. Così come mi indirizza al regista de L’albero degli zoccoli un personaggio come Lazzaro nel suo rappresentare gli ultimi, quelle persone che non si mettono mai in primo piano, quelle che scelgono i posti in fondo alla fila per non disturbare. Sì, il mio film è una fiaba su un ragazzo che ha una fiducia incondizionata nel prossimo, una persona vera che si fida degli altri. Elsa Morante diceva che siamo passati dal primo Medioevo al secondo, da quello sociale a quello più umano, di disgregazione. Tutto cambia e tutto rimane com’è e non spetta a me dire se sia meglio o peggio. Del resto, come ho detto più volte, non c’è sguardo che mi manchi più di quello di Olmi in questo momento. Il desiderio di fargli vedere questo film era forte, ma purtroppo non abbiamo fatto in tempo.

Nei suoi tre film lei sembra molto attratta dalla religiosità…

È vero ma non vengo da una famiglia religiosa, non sono stata neanche battezzata. Però vivo in Italia, tra gente per cui la religione conta. L’Italia è un Paese cattolico, quindi non riesco a rimanere indifferente a questo tipo di tensione. Una certa sensibilità religiosa mi appartiene, anche se non ha nulla a che fare con i dogmi ecclesiastici. Quando ho girato il mio primo film ho dovuto letteralmente scoprire come veniva insegnata la religione, mentre in Lazzaro felice ho dovuto inserire tanti riferimenti di fede perché le persone che vivono all’Inviolata sono tutte credenti e per loro la religione è molto importate, anche se è anche uno degli strumenti utilizzati per tenerli all’oscuro della realtà. In ogni caso, ripeto, non ho avuto un’educazione religiosa e quindi non ho ricordi né positivi, né negativi, non ho echi dentro di me. Però ho sempre avuto curiosità e interesse per certi mondi, e questa è anche la ragione del mio lungometraggio d’esordio, Corpo celeste, in cui proprio per allontanarmi dalla mia biografia sono andata a scoprire come funzionava il mondo delle parrocchie, cosa succedeva, che tipo di umanità vi gravitava intorno e, proprio per documentarmi, ho frequentato oratori e catechisti e devo ammettere che sono rimasta molto colpita, oltre ogni mia immaginazione. In quel film ho cercato di raccontare con tenerezza realtà molto dure e spesso vuote di spiritualità, in Lazzaro felice invece parlo di un altro singificato di spiritualità, del tutto arcaico. Una spiritualità legata a dei valori precisi.

Valorio di cui Lazzaro è inconsapevole portatore?

Lui è inconsapevole davanti a molte cose. Vive felice per la felicità degli altri e molti ne approfittano. Non so come avrei potuto renderlo senza Adriano Tardiolo, il protagonista, che aveva appena 18 anni quando l’abbiamo scoperto attraverso il casting, nel suo liceo, cercando l’attore che doveva interpretare il Lazzaro.Lui al casting non aveva partecipato. Non voleva, così come ci ha detto che non voleva partecipare al film quando glielo abbiamo chiesto. Ha risposto “No, grazie”. Ma noi abbiamo insistito, ci siamo conosciuti meglio, abbiamo parlato tanto e alla fine Adriano ha accettato. Era perfetto per questa storia, una sorta di santità senza miracoli, senza superpoteri. I suoi occhi sanno esprimere la santità dello stare al mondo senza far male a nessuno, senza pensar male di nessuno e credendo ciecamente negli altri esseri umani.

Perché chiamarlo con un nome biblico come Lazzaro?

Riflette una miscela di fantasia e realismo, è un tratto del mio cinema, del mio paese e di me. E poi vengo da un posto molto mitologico, un’Italia e una campagna in cui i confini tra finzione e realtà spesso si sciolgono e si confondono, le piccole storie si trasformano in leggende e, insomma, tutto è molto letterario e non può non farmi pensare a Ermanno Olmi, che, oltre che un maestro, era un mastro, nel senso originale di questa parola, un artigiano. Anche la religiosità legata alla favola me lo fa sentire vicino e qui il riferimento non è semplicemente quello del titolo, del nome biblico del protagonista, ma, come dicevo, la storia si rifà a una parabola legata alla figura di san Francesco e a un vecchio lupo che, vedendo Lazzaro addormentato, anche se affamato, resiste al suo istinto e non lo attacca. Si ferma, come davanti a san Francesco, perché intuisce la sua bontà e capisce che per questo non può azzannarlo.

È un film cui pensava da tempo?

Lo spunto nasce da un trafiletto che la professoressa di storia ci aveva fatto leggere al liceo, una storia che nel tempo è rimasta dentro di me. La storia di una tremenda marchesa, denunciata perché, approfittando dell’isolamento di alcune sue proprietà, non aveva detto ai contadini che la mezzadria era finita per legge. Lei pensava che se era stato così da sempre, il sistema sarebbe potuto durare un altro po’. Nessuno se ne sarebbe accorto. Ho dovuto lavorare per ricostruire questo mondo e il tutto è stato possibile grazie alla memoria collettiva, ai veri 54 contadini dell’Inviolata che ho incontrato e che nel film fanno come parte di un mondo alieno. Solo grazie a loro e alla loro storia son riuscita a raccontare una trasformazione: quella del mondo contadino che muore e sparisce. Ho sentito una vera urgenza nel raccontarlo. E ciò che allora evidentemente mi aveva colpito, perché lo ricordo ancora, era la mitezza, la rassegnazione di questa gente pronta ad accettare comunque lo stato delle cose. Una mitezza su cui si appoggia l’opportunismo di tanti e la storia di tanti sfruttamenti nel mondo.

Lazzaro è la sintesi di questa mitezza?

È il meno protagonista di tutti, è l’ultimo della fila, uno di quelli che stanno sempre dietro e vogliono aiutare tutti. Nonostante il film esprima fortemente il bene e il male, avvertendoci fin da subito su chi siano i buoni e chi i cattivi, Lazzaro non giudica nessuno perché lui ha una fiducia incondizionata negli altri. Non conta come si comporta e non è neppure sempre un eroe positivo, ma è una persona concreta, è un simbolo, la personificazione della possibilità di stare al mondo e fidarsi comunque degli uomini, oltre che di accontentarsi di ciò che si ha. La sua serenità consiste nel pensare che la felicità degli altri valga più della sua.

È anche il solo personaggio del film che non cambia…

Lui non può cambiare. Cambia tutto ciò che sta intorno a lui. Cambia lungo le due parti del film: la prima, l’estate in campagna che è chiaramente il passato,il tempo della mezzadria, il tempo del grande inganno; e poi l’inverno in città, trent’anni dopo, quando tutti sono invecchiati, sono cambiati, hanno perso la loro identità. Tutti, sia contadini che padroni. Tutti tranne Lazzaro.

Chi sono i Lazzaro di oggi?

Sono gli ultimi, di cui non si parla. Mi sono sempre chiesta perché nel cinema di oggi si parli tanto poco di loro, perché i protagonisti dei film, soprattutto commerciali ma non solo, siano sempre affascinanti, fortunati, belli. Io volevo fare l’opposto, raccontare qualcuno semplice e sincero, qualcuno che non muta anche se sta al centro di cambiamenti epocali. Mi interessano coloro che sono rimasti ai margini, sono spesso dei buoni che non sanno di esserlo. Vivono, sopravvivono, ma non si dedicano a fare il bene perché non sanno cosa sia, in effetti, il bene. Loro lo portano con sé, sono quel poco di buono che resta, ma loro stanno nell’ombra, quando possono lasciano spazio agli altri. Sono quelli che fanno i lavori sgradevoli, fanno tutto quello che gli altri non vogliono più fare, rimediano a tutto ciò che gli altri calpestano, senza che nessuno se ne accorga, senza chiedere nulla in cambio. Sono la prova che il bisogno di bontà esiste, è una richiesta continua, qualcosa che anche dentro alle brutture del mondo viene fuori. Sono la prova che l’uomo può essere buono davvero. Anche oggi.

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Silvia Di Paola