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Il “fattore tempo”: ne parliamo con i protagonisti delle serie tv più recenti

Racconto ciclico dal taglio cinematografico ma espanso, capace di creare dipendenza, la serie tv sta orientando sempre più la produzione filmica. Quali i possibili scenari futuri? Una certa coraggiosa serialità, sul modello americano, è pensabile in larga scala anche nel nostro Paese? In un’indagine sul campo, rispondono Sergio Castellitto, Sergio Assisi, Alessandro Borghi, Kim Rossi Stuart, Marco D’Amore, Paolo Sorrentino

 

C’era una volta il cinema. Quello che si consumava nel buio della sala, quello che era una avventura ogni volta in sé compiuta, quel “moltiplicatore di vite” che poteva (se maneggiato adeguatamente) inquietarti e folgorarti, stupirti e spingerti a interrogarti. E, poi, c’era la televisione. Calda, domestica, “pantofolaia”, gravida di riposo visivo e mentale, appendice del divano, di certo rassicurante. Sempre. Era il tempo, sino a un pugno di annate fa, in cui gli attori e i registi che lavoravano per le produzioni cinematografiche snobbavano i “fratellini” della fiction, comunque meno importante, meno impegnata, meno prestigiosa. Erano i tempi in cui la fiction era per famiglie, punto e basta. Erano i tempi prima dell’imporsi prepotente della serialità che arriva dritta dritta dagli States, entra prima nel corpo, nei desideri, nelle aspettative dello spettatore, indistintamente di cinema e di tv, poi nel corpo stesso del cinema e della tv, suggestionati da questo nuovo oggetto capace di creare fortissime dipendenze e, soprattutto, di scavalcare i confini abbattendo ogni steccato tra grande e piccolo schermo.

Il cambiamento è ormai servito, i registi e gli attori corrono (certamente complice anche la crisi) verso il piccolo schermo non solo in odore di serialità ma anche perché pure la fiction di casa nostra, sotto questa spinta deflagrante, è cambiata. E così grandi interpreti del nostro cinema ormai cavalcano tra cinema e tv come nel migliore dei mondi possibili. Come dice uno di loro, Sergio Castellitto, che sia da regista che da attore si muove spigliatamente tra cinema e televisione e che, partito decenni fa col personaggio del neuropsichiatra ne Il grande cocomero, è arrivato a quello del terapeuta nella serie televisiva In Treatment: “Recitare è dissotterrare le immagini che stanno dietro le parole. Improvvisamente un essere umano si siede e attraverso soltanto i suoi occhi, attraverso soltanto le parole riesce a ricatturare un’attenzione che è arcaica, non è moderna nel senso spicciolo della parola, è il risultato di quel dissotterrare, sta dentro di noi, è un’urgenza. E questo vale al cinema e ormai anche in tv, in serie come In Treatment in cui siamo, non a caso, alle terza stagione”.

Ma Castellitto sa bene che la serialità ha cambiato tutto nei rapporti tra cinema e spettatore. E non è certo il cinema che, nell’incontro-scontro, si è avvantaggiato: “E’ vero, ma è un discorso pieno di implicazioni, si potrebbe istituire una laurea breve sul tema. Però voglio mettere in guardia, perché sento parlare di crisi del cinema da quando ho iniziato a lavorare: io penso che la crisi sia movimento, quindi potrebbe non essere per forza qualcosa di negativo ma qualcosa che ci spinge, ci costringe a cambiare. Anche perché il cinema è poesia, ma è una poesia che costa un sacco di soldi. A volte, poi, non è neanche poesia, e costa comunque tanto… Allora il problema nel nostro Paese è che molti produttori vogliono al cinema la commedia. E basta. Age e Scarpelli per risolvere questo ostacolo presentavano una sceneggiatura aggiungendo dieci battute comiche che magari poi eliminavano nella versione definitiva, ma erano tempi in cui il cinema senza tv non si poteva fare perché erano i diritti che facevano guadagnare un film. Ora le serie tv hanno portato una ventata di aria nuova e una libertà di narrazione incredibile”. E aggunge: “Succede che la tv, nella versione seriale, ti dà, come ha ben capito Paolo Sorrentino, il diritto alla narrazione, senza interruzioni, senza sintesi laceranti. Sembra strano a dirsi, ma effettivamente il cinema è un genere archeologico, nel senso più alto del termine, mentre la serialità è qualcosa del tutto nuova, è una vera sfida, qualcosa che mette alla prova sia cinema che tv davanti al tentativo di trovare lo stesso approfondimento in dieci episodi o in un’ora e quaranta minuti”.

Ma il punto sta nel chiedersi: la nostra tv ha colto quella sfida o tutto si gioca tra tv seriale a stelle e strisce e cinema? “Che posso dire?”, risponde Castellitto, “Netflix è innovazione pura, mentre la Rai continua a fossilizzarsi sulle solite produzioni pluriennali, anche se ultimamente sta cercando di andare incontro a un pubblico più giovane. Però siamo ancora in alto mare. Del resto, si sa, la Rai è un luogo politico, non un luogo creativo. E la nostra fortuna è stata l’arrivo di Sky. Anch’io l’ho fatta la tv generalista, ho interpretato padre Pio e tanti altri personaggi. Ma bisogna fare anche altro. E poi immaginate se in Black Mirror, al posto del primo ministro inglese, ci fosse stato il nostro premier, lo avrebbero permesso? In Italia abbiamo anche questi problemi…”.

Come dire: l’Italia cerca di andare incontro alla svolta imposta dalla nuova tv seriale, ma lo fa molto, molto lentamente. Anche se ormai i pregiudizi contro il piccolo schermo si sono liquefatti e, appunto, corposa è la folla di attori che si muovono ormai senza tregua tra cinema e tv, spesso senza farsi mancare anche appassionate parentesi teatrali. Così, se chiediamo a un attore come Filippo Nigro se c’è un regista con cui vorrebbe lavorare o un ruolo che vorrebbe interpretare, ci sentiamo rispondere: “In questo momento adoro le serie tv e vorrei tanto interpretare qualcuno dei ruoli carichi di ambiguità che queste serie offrono. Diciamo che io dai tempi di Romanzo criminale e Vallanzasca mi faccio domande sul rapporto tra cinema e tv e oggi penso che bisogna fare una distinzione. Per me la tv, in tutte le forme, privata e pubblica, dovrebbe essere educativa. Il cinema può permettersi di affrontare qualsiasi argomento a 360 gradi, è destinato a un pubblico che sceglie, ma nonostante questo la tv sta ormai modificando anche il proprio pubblico e credo che la serialità modificherà anche il cinema anche se è difficile oggi dire in che modo”.

Mentre Sergio Assisi, che per molti è solo un attore tv, ma che, invece, ha esordito 24enne con Lina Wertmuller che lo volle in Ferdinando e Carolina e da allora ha cavalcato energicamente tra tv, cinema e teatro, tanto da potersi permettere oggi un debutto dietro la macchina da presa, sul rapporto contemporaneo tra i due mezzi riflette così: “Anche se ho lavorato molto in tv, è stato il cinema che ha cambiato la mia vita, quando Lina Wertmuller mi volle per Ferdinando e Carolina, e il cinema resta il mio primo amore. C’è una ragione che magari oggi, in tempi in cui la serialità televisiva sembra avvicinare cinema e tv, resta molto forte: che ci si trovi davanti o dietro la macchina da presa, il cinema è sogno. E per sognare devi stare nel buio di una sala. L’essere umano ha bisogno di sogni e di storie per far vivere la fantasia. Moriamo se non sogniamo, moriamo se non riusciamo più a raccontare storie. E poi, come nei sogni, se fai una cosa bella te la porti dietro e la trasmetti ad altri. Da attore pensavo che i registi fossero esigenti e cattivissimi, insopportabili e sempre pronti a gridare. E che io mai sarei stato così. E invece è andata diversamente…”. E aggiunge: “Così ho capito che anche il regista ha le sue ragioni. In fondo registi e attori sono entrambi partecipanti di uno stesso gioco. Lo dico perché è qui che la tv incontra il cinema e anch’io, strenuo amante del cinema, amo moltissimo la tv quando è quella delle serie americane. Serie straordinarie, pensate, ripensate, costruite al dettaglio, con i soldi e i tempi per farlo. Penso a prodotti come Breaking bad, la più bella mai vista sino ad ora. Ma qui da noi è impossibile, credo, realizzare qualcosa del genere. Non ci sono abbastanza soldi, ma neanche la voglia di azzardare, di provare il nuovo”.

 

Continua a leggere l’articolo di Silvia Di Paola su Filmcronache n.2/2017 (la registrazione è obbligatoria ma gratuita)

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Silvia Di Paola