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IL PRIGIONIERO COREANO (Kim Ki-duk)
Un saggio in immagini su un Paese diviso

IL PRIGIONIERO COREANO

Dopo un guasto accidentale al motore della sua barca, in prossimità del confine tra le due Coree, un pescatore nordcoreano, Nam Chul-woo, va alla deriva e, trascinato dalla corrente, approda nelle acque territoriali della Corea del Sud. Qui viene preso sotto controllo dalle forze di sicurezza interne e trattato come una spia, sottoposto a una serie di brutali indagini, spedito per le strade di Seoul, ma controllato a distanza, con l’intento di “conversione” al capitalismo e infine rispedito nel proprio Paese. Tornato a casa, però, Nam è vittima degli stessi violenti interrogatori subìti nel Sud…

Uscito nelle sale a un anno e mezzo dalla presentazione alla Mostra di Venezia, Il prigioniero coreano ha per titolo internazionale The Net, la rete. Quella che si aggroviglia attorno all’elica della piccola barca dello sfortunato protagonista, facendolo sconfinare suo malgrado in territorio “nemico”; ma anche quella ideologica che, identica nella natura ossessiva del controllo del potere, avvolge dalle due contrapposte sponde un semplice pescatore. Una rete che Kim Ki-duk getta addosso anche allo spettatore, imbrigliandolo in un duplice ma equidistante sguardo geografico, politico ed esistenziale, in un confronto aspro, di segno uguale e contrario, tra il regime di stampo maoista di Pyongyang e la democrazia capitalista di Seoul.

Sono le analogie, e non le differenze, a sostenere il peso del racconto ne Il prigioniero coreano, le dolorose, comuni contraddizioni (la tortura fisica e psicologica), in una critica generale tanto al sistema repressivo comunista quanto alle derive liberiste occidentali (richiamate nel film da una frase, “più forte è la luce, più grande è l’ombra”, seguita da “la libertà non garantisce la felicità”). Uno schema, quello adottato da Kim Ki-duk, per nulla estraneo alla sua poetica, da sempre incentrata sull’estrema polarizzazione drammaturgica, che anche in questo caso (come nei suoi ultimi lungometraggi) vibra in non pochi passaggi ma, in altri frangenti, si rifugia in un rigido schematismo narrativo.

Lontano dalle dirompenti tensioni filosofico-spirituali di Ferro 3 e Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, Il prigioniero coreano si configura dunque come un saggio in immagini di stretta attualità, auspicando una sincera distensione tra i due Paesi e il ritorno ideale alla riunificazione. Simboleggiata, qui, al di là di ogni frontiera, dalla coraggiosa dignità del protagonista e dal suo insopprimibile senso della famiglia.

 

IL PRIGIONIERO COREANO
Regia: Kim Ki-duk
Nazionalità: Corea del Sud, 2016
Durata: 114′
Interpreti: Ryoo Seung-Bum, Lee Won-Geun, Choi Gwi-Hwa, Jo Jae-Ryong

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Sull'autore

Paolo Perrone

Giornalista professionista, critico cinematografico, curatore di rassegne e consulente alla programmazione, è direttore responsabile della rivista Filmcronache e autore di numerosi saggi sul cinema. Per Le Mani ha scritto Quando il cinema dà i numeri. Dal mathematics movie all'ossessione numerologica.