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San Francesco visto dal cinema: misticismo, carisma e utopia
Il grande schermo alle prese con un affascinante “ribelle mite”

San Francesco

Insieme a Giovanna d’Arco, il Poverello di Assisi è il santo più cinematografico della storia. Numerose, anche se trascurabili dal punto di vista della resa artistica, le rappresentazioni sullo schermo della vita di san Francesco negli anni Dieci e Venti (tra le altre, Il poverello di Assisi, 1911, di Enrico Guazzoni; Frate sole, 1918, di Ugo Folena; Frate Francesco, 1927, di Guido Antamoro) e negli anni Quaranta (in particolare Francesco de Asis, 1946, di Albert Gout), mentre in anni successivi altre pellicole a lui dedicate sono invece rimaste ben impresse nella storia della settima arte e nella memoria degli spettatori: Francesco giullare di Dio (1950) di Roberto Rossellini, Francesco di Assisi (1966) di Liliana Cavani, Fratello sole, sorella luna (1972) di Franco Zeffirelli, Francesco (1989), ancora della Cavani. Fino a Il sogno di Francesco, diretto dai francesi Renaud Fely e Arnaud Louvet, con protagonista Elio Germano, uscito nei cinema italiani nell’ottobre dello scorso anno.

Se in Francesco giullare di Dio Rossellini illustrava in immagini undici episodi tratti dai Fioretti, introdotti da brevi didascalie, senza troppe pretese storico-filosofiche ma con una semplicità di tratto che restituiva con efficacia l’estrema varietà dei registri espressivi (dall’idillio alla fiaba, dall’estasi al misticismo, dal dramma alla poesia), il Francesco dell’allora giovane Liliana Cavani, al suo primo lungometraggio (copione di Tullio Pinelli, produzione Rai voluta da Angelo Guglielmi), racchiuso in una dimensione tutta umana, veniva indagato da vicino, con una prossimità sorprendente. “Lo ripresi mettendomi nei panni di una cronista del 1200 che registrava il fenomeno”, ha dichiarato la regista, talmente affascinata dalla figura di Francesco da tornare sui propri passi più di vent’anni dopo (come ricorda la stessa Cavani nell’intervista a Silvia Di Paola), con un nuovo film, protagonista Mickey Rourke, e nel 2014, con una miniserie televisiva che ha inteso rileggere la figura del santo di Assisi nella sua laica modernità.

 

In Francesco giullare di Dio, come scrive Guido Michelone in Invito al cinema di Rossellini, “il concetto di santità è ambivalente”, perché, come aveva già individuato Gianni Rondolino, uno dei più acuti studiosi di Rossellini, frutto di “un percorso sia di anticonformismo sia di follia: nel primo caso è l’atteggiamento sincero e disponibile di chi si apre totalmente al prossimo, nel secondo l’unico stato d’animo in grado di travalicare l’odio e l’egoismo e di conseguenza di risolvere a livello personale e collettivo i problemi della vita odierna”. Lo stile non lineare, l’andamento altalenante, scostante e disomogeneo, la risoluzione stessa del Francesco rosselliniano in un’alternanza di bozzetti accostati l’uno all’altro attribuiscono all’opera un fascino particolare, legato proprio, in qualche modo, alla sua incompiutezza.

Per Michelone, in questo modo “emerge quel senso di esile precarietà (…) che determina pure l’incanto di questo film, in assoluto tra i più sublimi dell’intero corpus rosselliniano”. Mentre per Rondolino, nelle pagine del “Castoro” dedicato al regista, in quegli episodi “autonomi, conclusi in una loro autosufficienza estetica” i fatti “parlano per se stessi, si aprono all’interpretazione dello spettatore quasi sfuggendo al controllo dell’autore, si manifestano nella loro essenza fenomenica. Francesco e i suoi fratelli, i luoghi mesti e idilliaci in cui si muovono, gli incontri e gli scontri con gli ‘altri’, la natura come antagonista e allo stesso tempo come compagna, sono tutti elementi di un grande mosaico incompiuto o, se si vuole, capitoli e appunti per un grande romanzo da scrivere. Di qui la frammentarietà dell’opera, l’incompiutezza, ma anche il fascino sottile”.

Nel Francesco di Assisi della Cavani, invece, la verità storica, la ricerca filologica e la verosimiglianza cronologica si smarriscono di fotogramma in fotogramma. Così, la conversione del santo è narrata in modo molto razionale. E il poverello, come scrive Francesco Buscemi in Invito al cinema di Liliana Cavani, diventa una sorta di “catalizzatore” di “tutte le istanze giovanili di quel periodo”. Molto diverso rispetto allo stesso personaggio “riaggiornato” nel 1989, totalmente privo di quella dimensione “pre-sessantottina” e animato da una vibrante, lacerante ricerca di Dio.

 

Anche solo da questi brevi stralci critici e da un primo inquadramento delle opere presentate in queste pagine, l’epoca di realizzazione non è mai stata ininfluente per le pellicole dedicate a san Francesco. E’ stato così anche per Fratello sole, sorella luna. Nel film di Zeffirelli, infatti, incentrato sulla prima parte della vita di san Francesco e di santa Chiara, riverberano gli echi di Jesus Christ Superstar. E seppure rifiuti accenti agiografici e predicatori, il racconto filmico resta saldamente ancorato agli anni Settanta, ad una stagione di forte scandaglio sociale e di indagine collettiva. Come scrisse Gian Luigi Rondi, “il Francesco d’Assisi di Franco Zeffirelli non è il protagonista estatico dei Fioretti, come nel film di Roberto Rossellini: è un ragazzo del Duecento italiano che si mette tutti contro, genitori, amici, una classe, una città, per correr dietro a un suo sogno di povertà e di purezza, scaturito nella sua vita dalla scoperta improvvisa del vero cristianesimo; esattamente come molti ragazzi di oggi, molti hippies, che si mettono contro il mondo intero per far le cose in cui credono; avulsi ed estraniati dalla società in cui vivono, ma a poco a poco sempre meno soli”.

Se Francesco giullare di Dio appare continuamente in bilico tra contemplazione e narrazione, con sprazzi di pura poesia e rotazioni avvolgenti sul tema della santità, se il primo Francesco della Cavani mescola con abilità tradizione e innovazione, penetrando con passione nella psicologia del personaggio portato sullo schermo, Fratello sole, sorella luna rivela, ancor più dei precedenti lavori sul poverello di Assisi, una “tensione interna” tutta contemporanea alla sua realizzazione: condensando nella figura del santo temi come la non violenza, il ritorno alla natura e la fratellanza universale, Zeffirelli tratteggia il profilo di un “ribelle senza furore”, un uomo contrassegnato da una ammaliante purezza d’animo. Una chiave narrativa, peraltro, alimentata dal rigoglioso sforzo scenografico del film.

 

Le direttrici lungo le quali si muove invece Il sogno di Francesco, il film di Renaud Fely e Arnaud Louvet uscito lo scorso ottobre nelle sale, sono l’amicizia fraterna tra il poverello di Assisi e il confratello Elia da Cortona e la messa alla prova di questa amicizia profonda, guidata da una rigogliosa e pauperistica obbedienza cristiana, nel contesto di un delicato equilibrio gerarchico.

Lontano da intenzioni agiografiche, suddiviso in capitoli dedicati a diversi personaggi della prima, originaria comunità francescana, il film, che adotta nel racconto il punto di vista di Elia, romanzandone la figura, parte, non a caso, dal rifiuto di papa Innocenzo III di approvare la prima versione della Regola. Una decisione che divide i confratelli, con Elia, il vero protagonista del film, che cerca di convincere Francesco della necessità di abbandonare ogni intransigenza, accettando di redigere una nuova Regola e ottenere così il riconoscimento dell’ordine. Dunque, pacata ragionevolezza o integrità assoluta? Docilità compromissoria o slancio indeformabile? Il sogno di Francesco poggia proprio su questi interrogativi, trasportati idealmente, per ammissione dei due registi francesi, dal 1200 ai giorni nostri, avvicinando, nelle loro tensioni convergenti (le forti diseguaglianze sociali, l’eccessiva materialità), due epoche separate da 800 anni di storia.

Sulla scia soprattutto dell’opera della Cavani, più che degli altri lungometraggi che abbiamo sommariamente trattato in queste pagine, Il sogno di Francesco si colloca in una “bolla” sospensiva tra un lontano ieri e un delicato oggi. Uomo del passato, il Francesco di Fely e Louvet, con la sua coscienza individuale al servizio di una causa universale, diventa infatti uomo del presente, simbolo di una modernità intesa anche in senso “politico” ma che non smarrisce mai il senso aggregativo e fondativo della fede. Distante, dunque, dal Francesco di Rossellini e Zeffirelli, meno da quello della Cavani, il poverello di Assisi che emerge dallo sguardo cinematografico di Fely e Louvet, grazie anche all’interpretazione sensibile di Elio Germano, assomma su di sé una radicalità evangelica coinvolgente, espressa in piena letizia e in un abbandono totale al disegno di Dio. Un preciso senso del ruolo, quello dell’attore romano, fatto proprio anche da Jeremie Renier nei panni di Elia.

 

“All’inizio non conoscevamo che le immagini dell’iconografia popolare su Francesco d’Assisi”, hanno detto i due registi transalpini presentando il film alla stampa, “la predica agli uccelli, il lupo addomesticato a Gubbio e due o tre altre cose. Abbiamo visto gli affreschi di Giotto e Francesco giullare di Dio di Roberto Rossellini, che amiamo molto, sapevamo che Francesco si era totalmente consacrato alla povertà e alla pace. Era poco, ma bastava per darci la voglia di saperne di più. Allora ci siamo messi a leggere la sua storia, il percorso compiuto assieme ai suoi confratelli, e ci siamo ritrovati davanti ad un personaggio fuori dal comune, davvero affascinante. Francesco reinventa una vita libera, che rimette il bisogno dell’altro al centro di tutto, cosa che per l’epoca costituiva una vera e propria rivoluzione. Il suo carisma, il suo talento oratorio e la sua autenticità ne attirarono al seguito personaggi di tutti i tipi. Questo insieme di rivolta mite, di profondo umanesimo e di utopia collettiva ci sembrava magnifico da raccontare”.

Il risultato, come detto, è di rigorosa restituzione di quel carisma, pur con qualche licenza di troppo inerente la figura di Elia (come la descrizione del suo tentativo di suicidio), sul quale le fonti storiche sono difformi e su cui, invece, Il sogno di Francesco stende uno sguardo conciliante. Anch’egli uomo del suo tempo slanciato verso una prospettiva esistenziale, intimamente inquieta, così vicina alla complessità individuale contemporanea.

 

(Articolo pubblicato su Filmcronache n. 4/2016. Registrati qui per leggere e scaricare gratuitamente la rivista)

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Sull'autore

Paolo Perrone

Giornalista professionista, critico cinematografico, curatore di rassegne e consulente alla programmazione, è direttore responsabile della rivista Filmcronache e autore di numerosi saggi sul cinema. Per Le Mani ha scritto Quando il cinema dà i numeri. Dal mathematics movie all'ossessione numerologica.