David e Benji, cugini, americani. Partecipano ad un viaggio organizzato in Polonia per tornare sulle tracce della nonna da poco deceduta, sopravvissuta ai campi di sterminio. È il loro momento per condividere un dolore profondo, fare chiarezza sul senso della memoria, camminare insieme verso la stessa direzione.
Lo sguardo interpellato
Il film ci chiede: quali sono le risposte che offriamo a coloro che sono realmente alla ricerca di un senso? in che modo l’appropriazione di una memoria collettiva intreccia la dimensione personale? È ancora possibile nel nostro mondo condividere un vissuto intimo e privato, comunicare un dolore, cercare una comprensione realmente compassionevole? Dove risiede l’origine del malessere sociale che permea la realtà contemporanea in modo sempre più radicale?
Come interpretare le parole di David: «Anche io sto male. Ma prendo le medicine, faccio jogging, medito, vado al lavoro e torno a casa. Vado avanti, perché so che il mio dolore non è eccezionale e non sento il bisogno di farlo pesare a tutti»?
La strada è indicata da un maestro come Levinas quando scrive: «Il dolore isola assolutamente ed è da questo isolamento assoluto che nasce l’appello all’altro, l’invocazione all’altro. Non è la molteplicità umana che crea la socialità, ma è questa relazione strana che inizia nel dolore, nel mio dolore in cui faccio appello all’altro, e nel suo dolore che mi turba, nel dolore dell’altro che non mi è indifferente. È la compassione. Soffrire non ha senso, ma la sofferenza per ridurre la sofferenza dell’altro è la sola giustificazione della sofferenza, è la mia più grande dignità».

Il paesaggio dell’anima di A Real Pain!
Uno dei massimi antropologi della scena contemporanea Yves Coppens, pur non essendo credente, affermava (è morto nel 2022) che non c’è uomo senza simbolo. Dentro questa affermazione scoviamo che il rinvio ad altro è costitutivo dell’umanità in quanto tale e, pertanto, l’uomo (che è sempre homo patiens, viator, desiderans mancante di qualcosa) non può più sottrarsi alle condizioni di esistenza che lui stesso si è creato: deve conformarvisi. Non vive più in un universo soltanto fisico ma in un universo simbolico. Il linguaggio, il mito, l’arte e la religione, aggiungiamoci il cinema, «fanno parte di questo universo, sono i fili che costituiscono il tessuto simbolico, l’aggrovigliata trama dell’umana esperienza», come ricorda Silvano Petrosino in un suo saggio mentre cita Cassirer.
Allora, chiarito questo aspetto irriducibile, e proprio all’interno dei nostri luoghi cari e comunitari (quali sono le nostre sale), dovremmo proporre, guardare e riguardare questo film di Jesse Eisenberg (qui factotum: interpreta, sceneggia e dirige) con gli occhi di chi si interroga su tre grandi questioni esistenziali: cosa spinge l’uomo ad attraversare itinerari di ricerca di senso? perché l’uomo ha una irriducibile esigenza di giustizia? come impiega il tempo di attesa di salvezza?
Infatti un film come questo è davvero potente nel cogliere il punto della situazione attuale: si manifesta un desiderio, un’esigenza profonda, che poi fatica a trovare una risposta adeguata e non banale. È come se Eisenberg (sì, proprio lui che in passato ha interpretato il fondatore di Facebook, il luogo-non-luogo assoluto), a cominciare da un vissuto personale (di famiglia ebraica, con origini polacche e ucraine) abbia voluto restituire tutto il proprio senso di inadeguatezza e dolore percepito nel ricomporre il disegno della propria esistenza all’interno di un mondo che pare non essere più in grado di fornire risposte rassicuranti e incoraggianti.
A real pain quindi non è solo un intelligente film sulla precarietà del vivere, come ricorda anche il doloroso personaggio del cugino Benji (interpretato dal bravo Kieran Culkin capace di trasmigrare l’intensità dell’indimenticabile personaggio di Roman Roy del capolavoro seriale Succession) ma è soprattutto un film che getta un guanto di sfida al mondo circa le funzioni simboliche della memoria e della possibilità di consolazione e cura dal dolore. Non possiamo non raccoglierlo.
I legami di A Real Pain
Viaggiare verso la memoria, per ricostruire i legami con la vita. Come faceva Ogni cosa è illuminata il romanzo di Jonathan Safran Foer, pubblicato nel 2002 da cui è tratto l’omonimo film. Dal punto di vista teologico la Bibbia attribuisce la compassione anzitutto a Dio e ne fa l’elemento in base al quale Dio “vede” la sofferenza del popolo e si appresta a intervenire in suo favore (cf. Es 2,23-25; 3,7-8).
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