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Jeunes mères si segnala immediatamente come un film che segna una svolta nell’opera monumentale di Luc e Jean-Pierre Dardenne che, pur senza alterare il loro inconfondibile stile, definito attraverso l’estetica del pedinamento di matrice neorealista, qui innestano almeno un paio di significative novità nella declinazione della storia di cui sono protagoniste cinque giovanissime ragazze, alcune delle quali addirittura minorenni, alle prese con inaspettate gravidanze e ospiti di un centro di accoglienza per giovani madri situato a Liegi. La prima e più importante riguarda la struttura drammaturgica che, per la prima volta, non fa coincidere l’intera narrazione con il tallonamento in semi-soggettiva di uno (o due) personaggi – abiurando così dalla sua classica forma “a imbuto” la cui definizione passa sempre attraverso l’evento finale -, ma stavolta è di matrice corale, suddivisa in quattro storie che il montaggio parallelo porta avanti in alternanza.
La seconda, non meno significativa, riguarda l’insolito happy end che i fratelli cineasti belgi riservano a un paio delle protagoniste, provando dunque a immaginare per loro un orizzonte meno aspro e plumbeo del solito. Tuttavia a questi cambiamenti strutturali e prospettici, che comunque confermano la densità e la qualità della scrittura dardenniana, corrispondono esiti meno eclatanti, laddove solo un paio delle storie della tetralogia di cui si compone Jeunes mères appaiono compiute. Così come le interpretazioni delle giovanissime attrici che prestano i loro corpi ai propri personaggi, e che hanno il volto dell’esordiente Babette Verbeek e di Janaïna Halloy Fokan, protagoniste dei due momenti più toccanti del film. Due sequenze che riguardano il tema della separazione e quello del ricongiungimento, il cui intimo dialogo che sono capaci di istituire fissa l’orizzonte semantico del film. Così come la sua urgenza e la sua necessità.
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