Constanze e Jens sono i genitori di Luis e le loro giornate sono ritmate dal loro lavoro: tra i turni notturni di Jens come tassista e i fine settimana che Constanze trascorre in ufficio, riescono a vedersi solo per brevi momenti nel taxi di Jens. Quando Luis è vittima di bullismo a scuola, i genitori si trovano coinvolti in un conflitto tra le norme sociali e la necessità di proteggere il proprio bambino. La regista Chiarla ambienta gran parte dell’azione nello spazio ristretto del taxi di Jens, fulcro narrativo e set di un vero e proprio campo di battaglia per i genitori, raccontando la tensione con vividezza e sottile ironia. Il taxi, come luogo e non-luogo, diventa il ring delle loro discussioni, un microcosmo dove si riflettono paure e fragilità. Constanze e Jens vogliono fare la cosa giusta per il figlio, ma finiscono per ricorrere a soluzioni affrettate, invece di essere davvero presenti per lui. Mentre Luis continua a essere preso di mira a scuola, la relazione della coppia rischia di crollare.
Lo sguardo interpellato
Cosa significa essere coppia nel nostro presente? E cosa implica essere e vivere da coppia il ruolo di genitori? Inoltre, è vero che il fenomeno del bullismo, più in generale della violenza e dell’intransigenza verso gli altri, è uno dei tanti frutti del capitalismo e della società consumista? In quale direzione deve procedere un’educazione alla libertà, basata evidentemente sul riconoscimento di ciò che siamo e non di ciò che facciamo, sappiamo o abbiamo? About Luis avanza queste e altre questioni stringendo il campo visivo al punto da esaurirsi quasi esclusivamente all’interno dell’abitacolo di un taxi e tagliando fuori del tutto il corpo-immagine del figlio, sempre al centro del discorso ma sempre tenuto lontano dagli occhi. Ispirato all’opera di Paco Bezerra, il film definisce la sgretolazione dei legami famigliari attraverso la polarizzazione dei personaggi che ruotano attorno a un episodio di bullismo accaduto a scuola, elemento centrale del racconto. Il figlio e ciò che accade a scuola vengono raccontati esclusivamente attraverso gli occhi dei genitori, che reagiscono in modo completamente opposto, non riducendo in alcun modo la violenza degli eventi ma facendo assumere alla storia un valore ancora più universale. Adulti smarriti, in cerca di una luce per orientarsi.
Il paesaggio dell’anima di About Luis
Si possono rimproverare tante cose a questo film, arrabbiato e imperfetto nella sua preoccupazione a sentirsi in dovere di spiegare tutto, ma non la mancanza di autenticità. È un’idea semplice, certamente teatrale, ma efficace anche da un punto di vista cinematografico: condurre lo spettatore alla ricerca di uno sguardo con cui immedesimarsi, verso il quale provare empatia, conforto, confronto, alla luce delle tante debolezze e dei tanti limiti di cui si prende coscienza.
Perché prima di essere un film sulla fine dell’armonia, o sulla crisi attraversata da una coppia, prima ancora di essere un film che riflette sul capitalismo a cominciare dallo stress che sommerge i due genitori-lavoratori, About Luis è un film sul limite delle immagini. Crede così tanto nelle immagini che, in maniera del tutto provocatoria, elide la presenza in scena del ragazzino vittima di bullismo, consegnando al nostro sguardo la sua assenza mediante la sola presenza del suo zainetto, coperta di Linus, capace di scoperchiare un universo simbolico in grado di restituire un ordine di segno e di senso. In che direzione si muovono i genitori di Luis? Vanno nella stessa direzione, alle radici di un male che può essere arginato e guardato negli occhi solo se affrontato insieme? Ecco allora che il quarto lungometraggio dell’italiana Lucia Chiarla (genovese emigrata a Berlino) è un’opera che esplora il senso del limite dell’immagine (cinematografica) del genitore, vettore di una responsabilità che interroga il mondo degli adulti a partire dal proprio modo di stare al mondo.
Ha dichiarato la regista: «Ogni coppia ha il proprio campo di battaglia. I figli ne sono spettatori e, nella dualità, cercano l’unità. I conflitti di coppia, i compromessi, il bisogno di sicurezza o semplicemente l’utilizzo dell’altro come avversario di confronto sono i punti di partenza di questa storia. Constanze e Jens sono essi stessi intrappolati nelle maglie di una società sempre più aggressiva, in cui i più forti spingono i più deboli ai margini. Lo stress del dover garantire la propria sopravvivenza li rende distratti e impotenti di fronte a ciò che sta accadendo al loro figlio. Il film è una riflessione sugli effetti che una società in costante trasformazione esercita su una famiglia che, proprio per questo, perde la propria coesione. Racconta di due persone per le quali il problema del figlio diventa una valvola di sfogo per le paure della perdita – paure nelle quali si ritrovano completamente soli e dove lo stare insieme non offre più alcun sostegno. Questa connessione mi affascina particolarmente, perché le dinamiche apparentemente private diventano il punto di partenza per una riflessione sul sistema di valori della nostra società. Siamo in grado di riconoscere quando e dove nascono le ingiustizie, se noi stessi siamo costantemente impegnati a lottare per sopravvivere? Possiamo davvero aspettarci che le nuove generazioni ci offrano un modello di convivenza fondato su una dialettica diversa da quella che mostriamo loro ogni giorno?».
Tra le pieghe di questa drammaticità, il film riflette sul nostro tempo di precarietà affettive, riflesso di un’umanità in cerca di se stessa e di punti di riferimento, avanzando sottovoce una domanda: ma come possiamo aiutarci a vicenda? È ancora possibile credere in una parola che annulli la violenza? Esiste la possibilità di virare verso un mondo migliore, da costruire e di cui prendersi cura? Ma, soprattutto, come convivere con ignoranza, mancanza di ascolto, superficialità e aggressività anche in quei contesti come la scuola in cui si confida per coltivare alternative alla desolazione e all’isolamento?
I legami di About Luis
Tanti i film da guardare come termini di paragone, ci limitiamo a suggerirne tre: Wall street di Oliver Stone, a proposito del legame tra capitalismo e cultura del successo e dell’apparenza e quindi a proposito del diabolico pensiero che l’uomo possa essere utile o inutile, normale o anormale, giusto o sbagliato; In un mondo migliore, di Susanne Bier, film che esplorava la complessità dell’animo umano di fronte al male subito, anche in ottica genitoriale; lo splendido e troppo rapidamente liquidato Il patto del silenzio, primo lungometraggio di Laura Wandel, giovane regista belga classe ’84 interessata a portare in scena il dramma delle dinamiche relazionali tra bambini all’interno del contesto scolastico, film di sguardi interrotti, abbracci spezzati e sorrisi spenti.
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