La regista Klaudia Reynicke torna dietro la macchina da presa con un film molto personale dalla doppia anima. Infatti, se da una parte Reinas costituisce il tentativo di riconnettersi al proprio paese originario abbandonato all’età di dieci anni per raggiungere l’Europa e poi gli Stati Uniti, dall’altra offre uno sguardo su di una famiglia che forzatamente si ricongiunge prima di una partenza decisiva per il corso della propria storia. Non un film a tema, bensì un film sul vuoto che si crea a causa della paura del cambiamento, quando si pensa con nostalgia al passato e non si riesce a vedere con chiarezza il futuro.

Lo sguardo interpellato

Il film ci chiede: cosa significa lasciare il proprio paese, la propria terra d’origine? Quali sono le aspettative di chi desidera una vita, se non migliore, almeno diversa? Quanto pesa il ricordo di ciò che lasciamo? Reinas è un film che sceglie di rappresentare le ambiguità dei rapporti personali come riflesso di una condizione sociale e politica in trasformazione. Quali sono le verità su cui si fonda la nostra esistenza?

Reinas

Il paesaggio dell’anima di Reinas

Si potrebbe guardare il film di Klaudia Reynicke come un apologo della condizione del migrante: di fronte alle sfide del viaggio della vita, spostandosi, l’essere umano è disposto a lasciare qualcosa e qualcuno in virtù di altro e di ignoto.

Eppure Reinas, con la sua insolita andatura mette in gioco altre suggestioni che vale la pena riconoscere e fissare come parti portanti di un discorso più complesso. È chiaro che tutto ruoti alle relazioni: il padre Carlos, la madre Elena, le figlie Aurora e Lucia, la nonna, gli amici. È ricca e fitta la trama di questi vissuti tesi a condividere un momento di passaggio, una condizione di precarietà emotiva, un vuoto esistenziale difficile da comprendere per chi non ha attraversato smarrimento e perdita. Mentre Elena guarda al Minensota, la tanto sognata terra promessa, Carlos prova a ricucire il rapporto con le proprie figlie nonostante anni di assenze e bugie.

In un film di promesse e desideri, assenze e apparizioni, risulta significativo osservare la cura con cui la regista sceglie di rappresentare le dinamiche relazionali tra padre e figlie: quali bugie e quali verità rivelano Carlos? Quante vite ha vissuto? Una sottile ambiguità che genera un effetto straniante anche per lo spettatore, alle prese con una ricerca di sguardo personale che lo conduce di fronte a diffuse zone d’ombra.

Lo spettro e le conseguenze delle aspre misure adottate da Fujimori agli inizi degli anni novanta in Perù amplifica il senso di giustizia atteso dai protagonisti che per un attimo credono di non essere costretti ad abbandonare la propria casa ma poi si rendono conto che amare significa anche abdicare e mettersi da parte.

I legami di Reinas

Per analogia e questioni sviluppate nel racconto risulta fin troppo semplice l’accostamento al film Ritrovarsi a Tokyo. Ancora più intenso il legame con il senso di smarrimento e la dimensione politica con Io sono ancora qui di Walter Salles.

Potete seguire ACEC anche su Facebook e Instagram

Scrivi un commento...

Sull'autore

Matteo Mazza