Magnetica. Sicura di sé. Orientata alla felicità. Pronta a sporcarsi con altre culture. Dell’opera Black tea possiamo dire tutto questo ma anche della sua protagonista Aya (Nina Melo). Tra la Costa d’Avorio e la Cina il regista e sceneggiatore mauritano Abderrahmane Sissako firma un film, a tratti sommessamente onirico nella preponderanza della notte, capace di valorizzare la tradizione ancorandola, però, inevitabilmente alle sfide della contemporaneità. Sì c’è anche la storia d’amore e il tè, ma quello è il classicismo dell’opera e va giù come un aroma pregiato in infusione.

Lo sguardo interpellato

Il film ci chiede: Perché si dicono dei “no” nella vita? Che cosa si fa prima di dire un “no”? Che “sì” diventano, invece, i “no” che ci hanno richiesto massicci spostamenti interiori? Ci si sposta prima interiormente o fisicamente? Si trasloca dentro o fuori? E nelle migrazioni c’è spazio per una valigia? O si abbandona tutto per lasciarsi conquistare dal nuovo? Il regista di Timbuktu semina continue domande nel passo fermo e deciso della sua protagonista che lungo la strada trova tante altre umanità, di ogni età, alle prese con i propri “sì” e i propri “no” ma anche con tanti ristagni e paralisi. 



Black Tea

Il paesaggio dell’anima di Black tea

Il senso del film è tutto nel preambolo in Costa d’Avorio e nella progressiva dissolvenza geografica che disloca la protagonista in Cina, verso nuovi riti e culture non priva di un bagaglio africano che riluce elegante e affascinante nella cura dei capelli e nelle stoffe di cotone wax indossate da Aya. A ripercorrere il film si coglie quanto non si possa comprendere i “sì” di Aya nel quartiere “Chocolate city” di Guangzhou, se prima non si sia respirato il suo “no” ad un matrimonio che l’avrebbe condotta dritta ad un’infelicità imperitura.

Quanto è bello e ben girato questo preambolo che orienta il nostro sguardo ai dettagli: i sorrisi di una coppia gravida dove anche le recriminazioni viaggiano nella tenerezza o l’aggressività latente che si coglie in un’altra coppia soltanto da come lui mette a tacere una mosca appoggiatasi al vestito nuziale. Il panorama umano a cui si assiste spinge a riflettere sul fatto curioso quanto insidioso che non tutte le coppie giunte a questo sposalizio diffuso hanno lo stesso sentore d’amore. E Aya lo annusa e non si dà pace perché a lei tocca in tal senso l’indigenza: vive quell’insofferenza che la induce ad inspirare ed espirare, sta nel ciclo vitale che le parla, che le offre vie d’uscita; sente che può anche non volerlo, che deve prendere in mano la situazione. 

Vivere è “abitare nella possibilità” scriveva Emily Dickinson: “I dwell in Possibility” per passare dalla prosa alla poesia anche nelle scelte della vita. Padre Antonio Spadaro in Svolta di respiro (Edizioni Vita & Pensiero, 2010), citandola, esalta questa postura spirituale: «Quando una vita prende forma – scrive il gesuita – in maniera autentica? Quando un uomo oltrepassa la soglia del mondo diventando attore, protagonista, e non solamente spettatore passivo? Quando davanti alla vita si aprono possibilità, si dispiegano opportunità e aperture: quando la vita è piena di promessa».

E, infatti, ritroviamo Aya in Cina (le riprese, in realtà, sono in parte a Taiwan) proprio con questa esatta consapevolezza descritta da Spadaro, con la fiducia che la vita non si era conclusa lì, in quella situazione in patria delimitata nella scena anche da un cancello, a simboleggiare proprio che nella vita bisogna cercare le vie di fuga che poi sono azioni di salvezza, produrre quell’innovazione interiore che le rende visibili e che poi diventa, collettivamente, anche il progresso di una società. In tal senso, come viene spiegato da Cai – il suo datore di lavoro a  Guangzhou che saprà sballare il cuore di Aya – la preparazione del tè con le sue diverse fasi che coinvolgono anche il processo del respiro è davvero la metafora rituale che magistralmente dipinge il discernimento delle donne e degli uomini di spirito. 

Essere aperti alla vita spirituale significa, infatti, anche garantire questa osmosi dal privato alla comunità. E la parte dell’opera ambientata in Cina è evidentemente regolata da questo principio e focalizzata in questa trama relazionale dove persone con provenienze diverse si riconoscono nella comunanza – e come non pensare allora al “gioco di lingue” generato dallo Spirito Santo – del desiderio di tutti di vivere felici, di giovani e meno giovani, di donne che lasciano uomini all’altare e altre che vengono lasciate sole.

Tutti cerchiamo di vivere nell’autenticità e di non recitare una parte. E se sentiamo che, invece, stiamo tristemente interpretando un ruolo, coltivando una vita spirituale succede proprio quello che annota Sissako: «Ho l’impressione – racconta il regista – che coloro che lasciano il loro Paese lo abbiano già abbandonato da tempo, a livello mentale, ben prima del loro viaggio vero e proprio». Accanto a tutto il tema dell’interculturalità rifiutata maldestramente in una cena (da sola vale il biglietto) dai più vecchi redarguiti però dai più giovani che danno una spinta anche per gli adulti intermedi, il film invita soprattutto – come abbiamo avuto modo di approfondire nel progetto formativo 2025 di ACEC e in particolare nel webinar con Sambu Buffa a non condire di stereotipi l’immaginazione e la conoscenza di un altro paese. Se gettare ponti è, invece, lavorare sulla parte che valorizza quel segmento universale di ricerca della felicità che cuce insieme le diverse appartenenze, affrontando le differenze con rispetto e interesse, in tal senso Black tea è allora un film imprescindibile.

I legami di Black tea

Nelle notti infinite di Black tea si sogna l’armonia, si cerca di essere adulti e di riparare i legami interrotti, di vivere il perdono riconoscendo gli sforzi altri verso il benessere spirituale. E soprattutto si va a confessarsi nel salone per capelli afro che diventa una liturgia frequentata da tutta la comunità femminile e dove tra lamentele e ammissioni vanno in scena tante radiografie umane, umanissime.

Proprio su questo luogo così caratterizzato dall’appartenenza “etnica” è inevitabile non pensare al salone di bellezza sempre afro di Mike Leigh nel suo ultimissimo Scomode verità, appena uscito al cinema. In questo luogo di cura dei capelli e delle anime lo spettatore trova letteralmente pace per qualche attimo in un film fortemente e volutamente respingente ma capace di tinteggiare che cosa può diventare, in termini patologici, una vita vissuta senza i “no” che liberano come quella di Pansy, la casalinga londinese protagonista. Due film, due volti della stessa medaglia.

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Sull'autore

Arianna Prevedello

Scrittrice e consulente, opera come animatore culturale per Sale della Comunità circoli e associazioni in ambito educativo e pastorale. Esperta di comunicazione e formazione, ha lavorato per molti anni ai progetti di pastorale della comunicazione della diocesi di Padova e come programmista al Servizio Assistenza Sale. È stata vicepresidente Acec (Associazione Cattolica Esercenti Cinema) di cui è attualmente responsabile per l’area pastorale.