Ribelle e delicato, gioioso e struggente, corporeo e pudico: l’opera iraniana in lingua farsi, scritta e diretta dalla coppia, nella vita e nel cinema, Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha coniuga sapientemente registri diversi con i temi politici, affettivi e femminili di un paese che non si arrende.
Lo sguardo interpellato
Il film ci chiede: in un contesto oscurantista è possibile riprendersi la vita, anche solo per un attimo, e in questo azzardo concedersi la libertà di amare, aprirsi ancora all’esperienza sensuale della nostra umanità e pensarsi affettivamente vitali ad ogni età? Una meteora di felicità può farci ancor più male o può risvegliare forme di resistenza?

Il paesaggio dell’anima di Il mio giardino persiano
My favourite cake (il titolo originale) è stato presentato in concorso al 74° Festival Internazionale del Cinema di Berlino dove, però, Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha non sono mai arrivati lasciando, simbolicamente, in sala due sedie vuote. Ci risiamo: passaporti ritirati e un processo in atto con le accuse di propaganda contro il regime, istigazione alla prostituzione e libertinismo e volgarità del film, a riprova che in un regime oscurantista i film scomodi si pagano tutti, fino all’ultima sequenza.
E non stiamo di certo parlando di un Babygirl o un di Povere creature in salsa persiana, ma di una vedova, Mahin, che da trent’anni non tocca un uomo e che, su suggerimento di un’amica durante un ritrovo in casa al femminile (il massimo della trasgressione che ci si può concedere e senza nemmeno metterci nessuna Lolita nascosta tra i biscotti) decide che è ora di darsi da fare e, in poche ore, individua il simpatico signore con cui fare amicizia e tutto quello che può seguire. Con la consapevolezza che è meglio portarselo a casa subito perché a 70 anni non c’è molto da dilazionare e con dei vicini impiccioni che ti vendono al primo guardiano della rivoluzione tutto sembra avere le ore contate. Vivere, ora.
Dura poco, il tempo di una torta in forno… di avere un uomo che ti sistema la classica lampadina… di prendere gli odori in giardino e condividerli come fossero afrodisiaci… di una cena nel retro per non essere visti dalle finestre di quelli disonesti… di una doccia insieme (vestiti)… di confidenze che ti fanno sentire nella stessa barca di solitudine… di un ballo e in alto i calici (tanti) di un vino nascosto e serbato per la serenità che prima o poi deve arrivare… Non si negano niente in questa finestra di tempo ristretta quanto intensa, sfidante ma mai scandalosa, fino a sembrare gli apostoli ignari che tutto sta per finire.
Il resto che segue, e che non sveliamo, non è meno evangelico: alla fine non ci rimane che contemplare di spalle una resurrezione nella costrizione perché l’amore non è mai uno spreco e lascia germogli anche negli spazi più angusti di un regime che tutto vede e tutto ascolta. E le giovani generazioni, accennate in un passaggio iniziale del film, sono quelle più esposte al rischio di non sprecare mai l’olio profumato dei sentimenti e dei sensi. Mahin ne portava, invece il ricordo, memore di una giovinezza tra tacchi, rossetti e Albano e Romina (sic!) e anche solo per un attimo ha riaperto quel vasetto… il forno, la doccia, la porta del giardino e tutta la routine negata in decenni di regime. Brava Mahin, bravi i registi.
I legami di Il mio giardino persiano
Nell’ultimo periodo il cinema non ha mai smesso di consegnarci opere sulla condizione femminile a Teheran e dintorni. Abbiamo visto Tatami co-diretto dalla franco-iraniana Zar Amir Ebrahimi (anche attrice) e l’israeliano Guy Nattiv, La testimone – Shaed del regista e sceneggiatore iraniano Nader Saeivar, Leggere Lolita a Teheran del regista israeliano Eran Riklis e La bambina segreta diretto da Alì Asgari, regista e sceneggiatore iraniano. Sempre di Asgari e co-diretto con Alireza Khatami non possiamo dimenticare il suo film ad episodi, ferocemente surreale, Kafka a Teheran.
Il 20 febbraio uscirà Il seme del fico sacro di Mohammad Rasoulof, regista, sceneggiatore e produttore iraniano dal 2010 condannato più volte dalla corte rivoluzionaria iraniana. Nel 2024 l’autore del potentissimo Il male non esiste è riuscito fortunatamente a fuggire dal paese, poiché condannato ad altri otto anni di carcere, alla fustigazione e alla confisca dei suoi beni. Il suo film girato a distanza e in clandestinità è stato premiato con il Gran Premio della Giuria durante l’ultima edizione del Festival di Cannes.
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