Dopo Le nostre battaglie, film capace di interrogarsi sulla precarietà lavorativa focalizzandosi sulle persone e i loro drammi a partire dalla dislocazione del conflitto principale tra le mura domestiche, il regista belga Guillaume Senez ritrova l’attore Roman Duris e insiste nel profilare condizioni umane atipiche, lontane dalla pigrizia esistenziale, in cerca di un’armonia con il mondo. Affida all’attore francese il ruolo di un padre sulle tracce della propria figlia che a causa di stringenti limiti legali non gli è permesso di incontrare. Siamo in Giappone. Lui è un padre errante. Guida il suo taxi con occhio vigile.  

Lo sguardo interpellato

Il film ci chiede: cosa ricerca l’uomo che viaggia? Di cosa si nutre il suo cammino esistenziale? Dove lo conduce la passione che coltiva nel profondo del suo cuore? Per cosa sarebbe disposto a morire? Il film Ritrovarsi a Tokyo del regista belga Guillaume Senez, che nella versione originale possiede un titolo ancora più efficace (“una parte mancante”), osserva la dimensione paterna di Jerome da una prospettiva insolita, interessato com’è focalizzare la condizione esistenziale che accomuna tutti coloro che per vivere scelgono di amare incondizionatamente. È il dramma di un uomo, padre e lavoratore, che al di là delle effimere differenze, lotta e soffre per la figlia Lily. Un uomo che ama, desidera vivere e, nonostante tutto, attende fiducioso che la giustizia si manifesti.

Ritrovarsi a Tokyo

Il paesaggio dell’anima di Ritrovarsi a Tokyo

Chissà quale è la nostra parte mancante. Intanto, e questo è il primo guadagno che otteniamo dalla visione di un film così, siamo mancanti di qualcosa. Tutti. È la nostra condizione di esseri umani bisognosi, desideranti, in ricerca. Siamo poveri, amanti e, senza dubbio, sofferenti.

Quel nostro essere patiens, cioè sofferenti nel senso più profondo dell’espressione che guarda sì all’attesa ma nel senso più alto del compimento. E allora dovremmo guardare il film di Senez con gli occhi di chi riconosce nel protagonista Jerome la propria vulnerabilità e precarietà di essere umano. Sempre che si accetti di essere in ricerca, viandanti, pellegrini di una speranza che da qualche parte siamo in grado di visualizzare, cioè prefigurare, quindi immaginare.

C’è inoltre la questione decisiva della rappresentazione della figura paterna, non di facile gestione. Ed è piuttosto evidente riconoscere nelle capacità attoriali di Roman Duris (che già in Animal kingdom si raccontava come padre che amava e consegnava alla libertà il proprio figlio) i tratti di un personaggio doloroso e lucido, dignitoso, tenace e ostinato, disposto a sacrificarsi per il bene più grande e poter riabbracciare la propria figlia nonostante la legge non glielo consenta. Terzo aspetto da non sottovalutare, il film si colloca in una zona d’ombra rispetto alla restituzione di un paese come il Giappone, tendenzialmente rappresentato in altro modo.

Qui assistiamo ad un ribaltamento di prospettiva e non tutto l’oro sembra luccicare: in Giappone la legge non prevede l’affido congiunto, in caso di separazione si arriva a parlare di rapimento da parte di chi per primo “si aggiudica” il figlio, e la burocrazia sembra essere un ostacolo insormontabile. In questa dimensione così assurda (per noi occidentali) e complessa, il personaggio di Jerome mostra una grande compassione nei confronti di chi, come la donna che assiste vivendo analoga situazione, si trova a porre domande senza ricevere risposta.  

I legami di Ritrovarsi a Tokyo

Può essere questo il momento valido per recuperare i due precedenti film del regista belga: Le nostre battaglie e Keeper. Oppure, fondamentale, accostare la figura di Jerome a quella del protagonista di Noi e loro interpretato da Vincent Lindon. Per gli amanti del cinema indie-nostalgico, il faro è Aftersun.

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Sull'autore

Matteo Mazza