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IL CINEMA DEL PAPA, IL CINEMA DI FRANCESCO
La svolta di Bergoglio nel rapporto con la settima arte

L’espressione “il cinema del papa” compare per la prima volta in un documento del 1948. Con l’ausilio di camion attrezzati per la proiezione, l’Azione Cattolica mostrava in quell’anno il film Pastor Angelicus nei paesi di montagna privi di sale: la proiezione del documentario realizzato nel 1942 dal CCC (Centro Cattolico Cinematografico), con lo scopo di portare in tutto il mondo il volto del papa, era il momento culminante dell’apostolato condotto dai propagandisti di Azione Cattolica in vista delle prime elezioni repubblicane. Negli archivi dell’Azione Cattolica si conservano le lettere con cui la popolazione ringraziava per aver ricevuto in dono “il cinema del Papa”.

Il Papa, da oggetto a soggetto
Prima di Francesco con l’espressione il “cinema del Papa” ci si riferiva dunque alla rappresentazione audiovisiva della figura del pontefice. Con Francesco a fianco del significato tradizionale (poiché anche Francesco è costante oggetto di rappresentazione) se ne è aggiunto un altro: “il cinema del papa” significa anche il cinema amato, citato, usato come riferimento culturale, additato come modello dal pontefice.
Perché si producesse questo secondo modo di intendere l’espressione “il cinema del Papa” era necessario che avesse luogo una piccola rivoluzione nel modo di accostare il cinema. Francesco pensa il cinema, vive il cinema, parla di cinema come se si stesse riferendo a qualcosa di familiare, di organico al proprio orizzonte culturale. Non è sempre stato così. Anzi: diciamo pure subito, non lo è mai stato prima. Il cinema prima di Francesco era percepito come uno strumento del mondo moderno di cui diffidare, uno strumento da cristianizzare. Quanto diversa è la confidenza con cui invece Francesco si accosta a un veicolo di cultura evidentemente percepito come prossimo e amico. Uno strumento non più da convertire, semmai da interrogare, con disponibilità d’animo e apertura di credito.
 

Un po’ di storia: il rapporto dei Papi con il cinema
Facciamo una veloce carrellata delle esperienze di fruizione cinematografica dei pontefici del passato per sondare l’ipotesi che abbiamo formulato. Anzitutto occorre sottolineare, ma questo è ovvio, che i papi sono spettatori non comuni, ai quali sono riservate particolari attenzioni. Ad André Ruszkowski (dirigente dell’OCIC), che nel 1948 si fa promotore dell’iniziativa della RKO di proiettare per Pio XII Joan of Arc (Giovanna d’Arco, Victor Fleming, 1948), l’allora Presidente dell’Azione Cattolica Vittorino Veronese scriveva: «Non si può evidentemente prendere impegni per una visione al Santo Padre (che da anni non vi si presta), senza conoscere il testo della pellicola: è perciò innanzitutto necessario che la Casa produttrice metta a disposizione mia una copia di Jean of Arc qui in Roma». Ma soprattutto, precisa Veronese, occorre «vincere il riserbo personale del Santo Padre».
Ben altra consuetudine con il cinema avranno Roncalli e soprattutto Montini: quest’ultimo in particolare conosceva molto bene il cinema sia nella sua dimensione produttiva sia in quella ricettiva. Le numerose annotazioni a commento delle visioni presenti nelle Agende del nunzio di Roncalli sono testimonianza di una consuetudine nuova, ma anche di un timore di fondo, che a volte emerge in modo esplicito. Se l’apertura di cuore nei confronti del mondo che caratterizza il pontificato di Giovanni XXIII fa sì che i giudizi positivi prevalgano nettamente su quelli negativi, la consapevolezza della pericolosa virata che il cinema sta per intraprendere, dando rappresentazione a un nuovo modo di concepire la sessualità che confligge radicalmente con la morale sessuale cristiana, è per Roncalli sconsolante: «A sera un film di distrazione – annota nel 1946 – Purtroppo fra i tanti è difficile trovare un film che non contenga qualche figura indecente. Così è il mondo che bisogna sopportare».
E ancora più preoccupate, a tratti mosse da vera e propria inquietudine, sono le note campagne di Montini contro le indecenti figure proposte dalla Dolce vita di Fellini e da Teorema di Pasolini. In quelle due occasioni Montini si pone (prima da arcivescovo e poi da papa) alla guida di vere e proprie crociate in difesa di una chiesa nuovamente timorosa e arroccata. Con Giovanni Paolo II (e poi con Benedetto XVI) si determina il pieno superamento della timida e breve parentesi rappresentata da Giovanni XXIII, durante la quale si era provato a “sopportare il mondo” nella convinzione che così facendo si sarebbero potute cogliere del mondo anche le sue ricchezze. Si torna a guardare al cinema come a un mondo altro, da convertire. È la nota prospettiva della “nuova evangelizzazione” che inaugura un rapporto con il mondo decisamente più aggressivo e impositivo di quello suggerito dalla “sopportazione cristiana” di Giovanni XXIII.

Il cinema come “catechesi per l’umanità”
L’aspetto più evidente di novità introdotto da Bergoglio è quello che potremmo definire una sorta di capovolgimento di approccio: il cinema da «oggetto» (di un progetto culturale, pedagogico, moralizzatore) forse per la prima volta diventa, nelle parole e nelle azioni di un papa, anche «soggetto» tout-court, cioè esso viene accolto pienamente nella sua autonomia di forma di linguaggio, di cultura, d’arte. In altre parole, è il cinema stesso per Bergoglio a poter essere una pedagogia o, per usare le sue parole, una forma di «catechesi per l’umanità»: uno strumento di per sé in grado di interpellare le coscienze dei credenti, di aprire a domande di senso. Tutto questo valorizza e accredita in modo nuovo la lunga tradizione cineforiale cattolica: l’idea di sale di comunità come avamposto della chiesa in uscita, laboratorio di comunità. È emblematico in questo senso un passaggio del saluto che il papa ha rivolto di recente (dicembre 2019) ai rappresenti dell’Acec-Sdc in occasione dei 70 anni dell’associazione: «La visione di un’opera cinematografica può aprire diversi spiragli nell’animo umano. Il tutto dipende dalla carica emotiva che viene data alla visione. Ci possono essere l’evasione, l’emozione, la risata, la rabbia, la paura, l’interesse… Tutto è connesso all’intenzionalità posta nella visione, che non è semplice esercizio oculare, ma qualcosa di più. È lo sguardo posto sulla realtà. […] Lo sguardo provoca anche le coscienze a un attento esame».

Il film citati da Francesco
Questo mutamento di approccio è ben percepibile, perché è il papa stesso ad usarlo in prima persona nel suo magistero (anche con precisi richiami o allusioni al testo filmico), inaugurando una prassi sconosciuta, almeno con queste sfumature, ai suoi predecessori. Ci limitiamo a tre esempi significativi. Il primo è relativo a Il pranzo di Babette che vanta un primato: è infatti il primo film a cui un papa fa esplicito riferimento in un documento pontificio, ovvero l’esortazione apostolica Amoris laetitia sull’amore nella famiglia (2016). Il secondo esempio, meno visibile, più raffinato, è la profonda allusione filmica a La strada di Fellini che il papa fece nel corso dell’omelia pronunciata a braccio per la Pasqua del 2016 quando mescolò la metafora vetero e neo testamentaria della «pietra scartata dai costruttori» che «è divenuta testata d’angolo» con quella del “discorso del sassetto” che nel film il Matto fa a Gelsomina.
L’ultimo esempio è relativo al cinema neorealista: è noto quanto complesso e conflittuale sia stato il rapporto tra la Chiesa e il neorealismo legato essenzialmente al problema della rappresentabilità del male sullo schermo. Con papa Francesco si ha un pieno recupero, in senso positivo, di quell’esperienza di cinema: è infatti proprio alludendo ai film neorealisti italiani che il papa ha parlato di «catechesi di umanità» (si veda il suo incontro a San Siro nel marzo 2017), o, per tornare al saluto all’Acec-Sdc dello scorso anno, di «scuola di umanesimo». «Tutto il cinema del dopoguerra è una scuola di umanesimo – disse il papa in quella occasione – […] Quando eravamo bambini, i genitori ci portavano a vedere quei film, e ci hanno formato il cuore».

(L’articolo di Gianluca della Maggiore e Tomaso Subini* è pubblicato su SdC – Sale della Comunità n.2/2020)

*Gianluca della Maggiore e Tomaso Subini sono gli autori di Catholicism and Cinema. Modernization and Modernity, Mimesis International, Milano 2018 e di una sintetica cronologia sui rapporti tra cattolicesimo e cinema disponibile al link https://riviste.unimi.it/index.php/schermi/article/view/9626

 

Rivedi l’intervento di Subini e Della Maggiore sul “Cinema del Papa” agli SdC Days Onlife 2020 (dal minuto 28):

 

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Tomaso Subini