Davvero possiamo determinare il nostro futuro? Corre instancabile la domanda nelle tre epoche esistenziali di Moonlight: l’infanzia, l’adolescenza e l’adultità di Chiron. L’ambiente sociale, famigliare, paesaggistico, architettonico con cui deve fare i conti con i suoi disagi, violenze, assenze e povertà plasma senza via d’uscita il protagonista che rimane “Little” anche quando sarà diventato un uomo dal busto scolpito con i denti d’oro.
Si può resistere ad una vita senza “ecologia umana”?
Ad una solitudine che si allarga a macchia d’olio nella nostra vita corrodendo anche la nostra capacità di desiderare il bene?
E’ la “cattiva strada” che Chiron era riuscito ad evitare. Eppure gli basta soltanto un cedimento per finirci impantanato. Basta poco in certi contesti. Lì dove la possibilità di governo della propria vita diventa un ciglio a bordo strada troppo stretto per evitare di essere investiti.
Madri tossiche (quella del regista del film e quella del regista dell’opera teatrale di riferimento!), padri assenti e sostituti non all’altezza: è la fiera del limite, dell’imperfezione e dell’ambiguità che la vita si porta appresso.
Che fare: cedere al vittimismo? Cedere alla malavita? Lasciar credere agli altri di essere più “tosti” di ciò che siamo realmente? Quando lasciamo potere agli altri sulle nostre vite togliamo energia al nostro essere.
Chiron è esausto; troppa salita per una vita soltanto.
Non si può sempre mettere la testa nel frigo.
Il suo amico Kevin che una critica spicciola descriverebbe come amore omosessuale è ancor prima tutta la cura e la prossimità che non ha ricevuto dalla sua famiglia. E’ l’abbraccio, il tocco, la parola, lo sguardo, il sorriso che si fa più grande di ogni pulsione erotica, anche di quelle assecondate. Una culla per un bambino che finalmente si può guardare indietro perchè ora è al sicuro, tra le sue braccia di nuovo.
Da Moonlight alla domanda “Cosa racconta la nostra sessualità?” il passo è veramente breve. Ma passo e chiudo.