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DIO E’ DONNA E SI CHIAMA PETRUNYA
Riflessione filmico - pastorale sul film di Teona Strugar Mitevska

Perché… dio non potrebbe essere donna?

Perché… io non potrei conquistare la croce?

Perché… io non potrei accedere alla felicità?

Il film della regista macedone premiato alla Berlinale dalla giuria ecumenica è così serrato e solido che possiamo soltanto far nostre le domande della protagonista Petrunya. Prenderle sul serio, più di quanto facciano alcuni personaggi che lei ha la sfortuna di affrontare. Parlando di arcaismi, solo apparentemente macedoni, Dio è donna e si chiama Petrunya finisce infatti per essere un film di stringente attualità e potente avanguardia concettuale sulle dinamiche di “accesso alla vita” dell’universo femminile. Petrunya è come una “bambina dei perché” che oltrepassa momentaneamente il recinto che divide il rosa dal blu. Lo fa tanto con le parole tanto con le azioni e lo scavalca in barba ad ogni tradizione e ad ogni regola non scritta (per questo più pericolosa).

Seppure si tratti di un fatto reale capitato nel 2014 in Macedonia, il persuasivo simbolismo narrativo conduce in realtà nelle atmosfere della “fiaba noir”. Petrunya ha la curiosità di chi si scontra con qualcosa di assurdo e tra imbarazzo, tenacia e timore cerca di capirne razionalmente le motivazioni. Come alla famosa Cenerentola, nemmeno a Petrunya è consentito di accedere al ballo. Guadagnare la croce che garantisce un anno di felicità le costa, infatti, un martirio lampo a cui assistiamo con incredula sofferenza, augurandoci che venga “soltanto” vessata e non le succeda di peggio. La sua virginale ingenuità, che si sorregge su una laurea in storia, irrompe senza preavviso nel granitico maschile del “ma padre, si è sempre fatto così!”, scoperchiando questioni millenarie che arrivano prima o poi a sfiorare ogni donna. Succede anche in una via fredda e spoglia, fuori dal mondo, dove si tiene una teorica innocua processione ortodossa, che finisce in realtà per diventare una pentola a pressione e che la giornalista intercetta come una vera notizia per il paese.

Prima di fuggire al “ballo” Cenerentola-Petrunya dovrà affrontare altre insidie sulla sua strada che valorizzeranno ancor di più il suo tuffo verso la croce, un vero trampolino verso una profonda libertà. Una di queste insidie è rappresentata perfino dalla mamma di Petrunya, una donna egoista e piccola come la matrigna delle fiabe che cerca di indurla ad un’idea di donna tristemente accomodante e in linea con le richieste mediocri dell’universo maschile locale. Petrunya resiste alle tentazioni: quel “no” che sa dire a chi l’ha messa al mondo poco dopo si trasforma nuovamente in altrettante coraggiose e audaci negazioni che la mettono sempre più in contatto con la sua identità. Una notte di calvario da cui nasce una donna solida che non abdica alle sfide del suo tempo. E se il paese è piccolo, la battaglia di Petrunya, invece, è grande e utile a tutte, perché è buona per lei.

Da quel momento un’energia più grande si diffonde nella scena, riscaldando un ambiente senza tenerezza e lasciando intravedere il seme della diversità nel giovane poliziotto che la protegge come può senza diventare il salvatore. E’ Petrunya che si salva con la sua tenacia e lui sceglie, giustamente, da che parte stare. Anche al principe, nella modernità, sono richieste nuove dinamiche e funzioni nella narrazione. Il legame tra i due già si palesa con le sensazioni di un sentimento prestigioso, che mette in ombra la triste pochezza del religioso ortodosso, la violenta e subdola prevaricazione dell’ispettore e l’oscenità fascista dell’universo maschile che rendono la croce l’oggetto dell’insignificanza. La restituzione finale di essa da parte di Petrunya – “serve a te, a loro” – parla chiaro e si contrappone alla giacca di Stefan che Petrunya, invece, porta a casa come bottino di un’esperienza che ha creato una crepa nel suo paese. Ora la “bambina dei perché” può tornare a casa lungo le tracce lasciate sulla neve, come in una vera fiaba. La battaglia è vinta, simbolicamente, e non ha senso farne un’ossessione. Piuttosto c’è un sorriso da custodire: chiusa magistrale piena di futuro che lascia a quel manipolo di uomini – laici e consacrati – l’arduo compito di salvarsi e di entrare nel nuovo mondo.

Suggestioni per un confronto nella sala della comunità:

– Petrunya non demorde e continua a dire che lei ha vinto: perché? Perché non ha paura?

– Che valore possiamo attribuire alla scena di Petrunya nuda con la croce sul suo letto?

– Com’è il legame tra Petrunya e la madre? Che relazione genitoriale si instaura?

– Come sono gli uomini che vogliono conquistare la croce? Come si esprimono? Che atteggiamenti hanno? Come usano il loro corpo?

– Come possiamo interpretare la restituzione della croce da parte di Petrunya?

– Vedi dei legami di senso con la realtà italiana? E’ una vicenda che si può ritenere limitata ai confini della Macedonia?

– E’ un film femminista?

– Che esperienza ecclesiale viene descritta?

– Che ruolo ha la giornalista nella vicenda di Petrunya?

Scarica il contributo filmico pastorale in pdf

Leggi la recensione estetica di Filmcronache a cura di Francesco Crispino

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Sull'autore

Arianna Prevedello

Scrittrice e consulente, opera come animatore culturale per Sale della Comunità circoli e associazioni in ambito educativo e pastorale. Esperta di comunicazione e formazione, ha lavorato per molti anni ai progetti di pastorale della comunicazione della diocesi di Padova e come programmista al Servizio Assistenza Sale. È stata vicepresidente Acec (Associazione Cattolica Esercenti Cinema) di cui è attualmente responsabile per l’area pastorale.

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