Lo sguardo interpellato
Il film ci chiede: in che modo storia personale, intima e privata, e storia universale, collettiva e pubblica, si intrecciano? Dove risiede l’origine del malessere sociale che permea la realtà contemporanea in modo sempre più radicale? Quali sono gli antidoti per evitare il tracollo morale, l’anestesia affettiva, l’indifferenza civile e, soprattutto, la perdita di memoria e speranza?
Come si domandano le registe: «Continuerei ad amare mio figlio se le sue idee diventassero diametralmente opposte alle mie? Rimarrebbe mio figlio o cambierebbe così tanto da non riconoscerlo più e volerlo rinnegare? Si può perdonare tutto? In un momento politico in cui gli estremi hanno la meglio, sono queste le domande che ci hanno ispirato a realizzare questo film. Questa storia di famiglia, convinzioni politiche, vergogna e riconciliazione è anche la storia del nostro Paese».

Il paesaggio dell’anima di Noi e loro
«Ci sono immagini che restano impresse». Sono parole che escono dalla bocca di Pierre, il padre, mentre parla al telefono con Louis, il figlio minore. Si riferiscono al fatto di vedere con i propri occhi il proprio Fus, il maggiore, sul patibolo, dietro alle sbarre, con una colpa incontrovertibile che pesa, con un futuro segnato. Le immagini che restano impresse sono quelle che determinano la nostra vita, sembra suggerire la battuta di Pierre. Ed è così. Ma serve esercitare la memoria perché queste restino presenti e non si cancellino, come riconosce un padre ferito, consapevole di avere cresciuto i figli con l’assenza della madre morta, a tal punto da non riuscire a prendere in considerazione l’idea di schierarsi dalla parte del figlio colpevole, mortificato da un’immensa vergogna, fermo sui propri valori.
Infatti Pierre dirà, poi: «Mi assomiglierà anche, ma non lo riconosco più». Tratto da Ce qu’il faut de nuit, il romanzo di Laurent Petitmangin, il film di Delphine e Muriel Coulin in italiano è stato distribuito con il titolo Noi e loro, espressione che guarda alla demarcazione del territorio, alla separazione e distinzione per logiche avverse, criteri politici, schieramenti basati su idee inconciliabili ma tradisce e abbandona la dimensione più strettamente lirica del titolo originale Jouer avec le feu, più aderente al testo originario.
Infatti, tanto la pagina scritta, quanto il film, mirano a sollevare nello spettatore la visione di quelle fonti di luce che illuminano o abbagliano, indicano la via o fanno deragliare: si pensi alla scena in cui Fus costruisce l’arma del delitto davanti agli occhi del padre e ciò che si vede è filtrato da un rossastro irritante che disturba la percezione dello spettatore.
Tutto è costruito su chiaroscuri, zone d’ombra, riflessi, effetti che definiscono l’enigma umano. La poesia di Supervielle, a cui si rifà il titolo del romanzo, parla di “ciò che serve della notte” per apprezzare la luce. È tutta una questione di contrasto. Pierre lavora di notte, con le sue torce che guidano i treni. La presenza dell’assenza della moglie e madre è assoluta. Come si fa, come si diventa una guida quando si è immersi nella notte? Quali sono i nostri segnali luminosi?
I legami di Noi e loro
È il momento di recuperare un film imprescindibile sul rapporto padre/figlio/misericordia: Il figlio dei fratelli Dardenne. Oppure, a proposito di crisi sociale e lavoro, liberismo e individualismo (del ferroviere, ma non solo) l’affondo di inizio secolo di Ken Loach Paul, Mick e gli altri e, ovviamente, a proposito di genitorialità e responsabilità l’audace 17 ragazze, titolo d’esordio delle sorelle Coulin.
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