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CURE (Kurosawa Kiyoshi)
Mistero criminale

Nel febbraio 1997, Tōkyō è scenario di una serie di efferati omicidi, le cui vittime riportano ferite a forma di X all’altezza del collo. Accusati dei crimini sono individui che non riescono a motivare il loro agire. Incaricato del misterioso caso è il detective Takabe, coadiuvato dallo psichiatra criminologo Sakuma. Ben presto i due individuano in Mamiya, un giovane che si aggira per la città in preda all’amnesia, il sospettato colpevole dei delitti. O meglio, il mandante di gesti altrui guidati attraverso la suggestione ipnotica.

Realizzato nel 1997 ma finora inedito nelle sale italiane dove esce restaurato in 4k,  Cure segna una importante svolta nella carriera dello sceneggiatore e regista Kurosawa Kiyoshi, la cui maggioranza dei lungometraggi dai primi anni ’80 era stata fino ad allora distribuita direttamente in homevideo. Specialista, per così dire, del pinku eiga (soft porn), il cineasta nativo di Kobe nel 1955 era considerato un autore di B-movie. La potenza espressiva e l’estetica raffinatissima di Cure lo consegnano al plauso della critica internazionale del tempo, inducendolo a rafforzare una propria cifra riconoscibile, seppur spesso all’interno del genere J-horror, ovvero l’horror giapponese. Anche Cure, mescolandosi al thriller psicologico e al poliziesco, è di fatto un J-horror, a partire dalla tradizionale struttura circolare seguita dalla reiterazione di diverse azioni. Benché al centro vi sia la classica opposizione “occidentale” fra eroe e antagonista, Cure può definirsi come un’opera profondamente giapponese, laddove le cose, i fatti semplicemente accadono senza un’aspettativa accentuata dal linguaggio. In tal senso è lo stesso Kyoshi a considerarsi “figlio” dei vari Ozu, Mizoguchi, o magari di Ōshima, con tutte le differenze dei casi. La suspence che alimenta il crescendo del dramma è dunque proprio nel susseguirsi degli eventi e nelle loro proiezioni interiori più che in espedienti linguistici ad hoc. Questo non toglie alla regia di Kurosawa una straordinaria ampiezza, – in altezza e profondità – perfettamente funzionale alla drammaturgia innescata, peraltro codificata in una sceneggiatura millimetricamente creata dallo stesso autore. Misterioso, enigmatico, sconcertante, elusivo, livido e inesorabilmente oscuro: questa è la gamma aggettivale che si presta a descrivere Cure, tragedia in thriller orrorifico che apre domande e pone poche risposte, proprio come il miglior cinema. Denso ma non ridondante di figure retoriche registiche quali carrellate orizzontali (spesso in pianosequenza) opposte a movimenti verticali (le “cadute”) orientate a incutere paura, ma anche caratterizzato da interessanti ellissi temporali che favoriscono l’utilizzo mai banale del fuori campo, il film è anche un viaggio nel disturbo mentale diversamente coniugato che offre all’attore protagonista Kōji Yakusho (il suo ruolo più recente è da leading character di Perfect Days di Wenders per cui vinse il premio a Cannes 2023) la possibilità di mettere in scena la sua ricca gamma espressiva.

CURE

Sceneggiatura e regia: Kurosawa Kiyoshi

Cast: Kōji Yakusho, Masato Hagiwara, Tsuyoshi Ujiki

Giappone 1997

Durata: 111′

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Sull'autore

Anna Maria Pasetti

Anna Maria Pasetti Milanese, saggista, film programmer e critica cinematografica, collabora con Il Fatto Quotidiano e altre testate. Laureata in lingue con tesi in Semiotica del cinema all’Università Cattolica ha conseguito un MA in Film Studies al Birkbeck College (University of London). Dal 2013 al 2015 ha selezionato per la Settimana Internazionale della Critica di Venezia. Si occupa in particolare di “sguardi al femminile” e di cinema & cultura britannici per cui ha fondato l'associazione culturale Red Shoes. . Ha vinto il Premio Claudio G. Fava come Miglior Critico Cinematografico su quotidiani del 2020 nell’ambito del Festival Adelio Ferrero Cinema e Critica di Alessandria.