Un omaggio opportunamente rivisitato all’heist movie con i ritmi lenti di certa New Hollywood della provincia americana sembra essere il riferimento narrativo ed estetico di The Mastermind della statunitense Kelly Reichardt, che porta a Cannes il suo ottavo lungometraggio di finzione. Di produzione e sguardo indipendente come l’intera sua filmografia, The Mastermind è il racconto del furto alla pinacoteca del museo di Framingham, cittadina del Massachusetts, ideata e orchestrata da James, figlio di un facoltoso e conosciuto giudice della zona. Marito e padre di due gemelli piccoli, James si dimostra abile nel condurre a successo il suo piano finché qualcosa va storto, e il giovane si trova ricercato, ramingo e senza un soldo. Da sempre attenta al racconto sociale americano dal basso, in qualunque epoca ambienti i suoi film, Reichardt organizza questo testo situato nel 1970, in piena guerra del Vietnam, con la chiara intenzione di evidenziare le contraddizioni interne alla società nel presente del proprio Paese, a partire dal sottofondo di televisori accesi perennemente sintonizzati sulle notizie politiche e sugli annunci di un Nixon che non poco rievoca l’attualità trumpiana. Se il suo protagonista, interpretato da un solido Josh O’Connor, rappresenta non solo il risultato deviato di una borghesia dominante che sta scomparendo, ma è anche il sintomo incarnato del dropout, status sociale tipico dei periodi critici di un Paese di cui vengono a mancare le pre-esistenti certezze. Un film non del tutto riuscito ma che contiene intelligenza, capacità narrativa e drammaturgica e che, nelle sue sospensioni temporali rievoca il gusto, appunto, di un bel passato del cinema made In USA.