Tormentato da una tragica perdita, Salvo, un pescatore siciliano, lascia la sua città natale per rifugiarsi a lavorare nella produzione di carbone di legna in una zona montuosa della Calabria. Alla notizia del peggioramento della salute del padre, torna nella cittadina balneare di Ganzirri, in Sicilia, dove intende vendere la casa di famiglia e utilizzare i fondi per una battaglia per l’affidamento congiunto con l’ex moglie.

Lo sguardo interpellato

Esiste un’autentica fedeltà al passato? Non è forse illusorio credere che i nostri ricordi restino immutati nel tempo? Spiaggia di vetro è un film che si fonda su sentimenti e contraddizioni per avanzare la possibilità, del tutto umana, di evitare la falsificazione della memoria attraverso un nuovo rapporto fra passato, presente e futuro, in cui vi sia posto anche per il perdono. Un film quindi che propugna una cultura del perdono (verso gli altri e verso di sé) in cui il passato, gravato dalla colpa, non venga cancellato o rimosso, ma alleviato mediante il riconoscimento del ricordo dell’Altro. 

Spiaggia di vetro

Il paesaggio dell’anima di Spiaggia di vetro

Si comprende subito la condizione in cui vive Salvo, fatta più di ombre che di luce: siciliano di mare, sradicato dalle proprie terre e acque, lavora nella produzione di carbone in una montagna della Calabria. È lui il primo a indossare i panni dello straniero, ospitato, ferito. È un esiliato. Un profugo dalla sua anima come sanciscono i fumi infernali da cui è avvolto: vittima del passato e del senso di colpa, imprigionato in un tempo che non sembra avere futuro. Un percorso che dal buio lo porterà a uno spiraglio di luce.

Tutto cambia, o quasi, quando scopre che Binta con il giovane figlio Moussa, occupano abusivamente la fatiscente casa sul mare, di proprietà del padre. Il braccio di ferro iniziale spinge Salvo a trovare un’alternativa e trovare rifugio nella altrettanto fatiscente barca da pesca ormeggiata da troppo tempo per risistemarla. È questo il momento in cui il film dichiara in maniera definitiva la propria cifra: coltivare e custodire il pezzo di mondo che ci è stato affidato non rifiutando la realtà ma trasformarla. Un film sul lavoro inteso come pratica che umanizza ma anche come riflessione sulla propria storia cercando e trovando alternative, credendo nel futuro e nella possibilità del cambiamento.

Progressivamente, Spiaggia di vetro contempla l’idea di non temere l’immaginazione, pratica assurda per il nostro mondo dominato da razionalità, ordine e produttività. Per questo Salvo abbraccia l’immaginazione come strategia di salvezza, per riordinare la propria esistenza divenendo agli occhi degli altri così sovversivo, non controllabile, non misurabile, non riducibile ai parametri con cui avviene l’omologazione del pensare e del sapere. Cosa resta alla fine? Un’onda, un respiro, alzarsi con la voglia di guardare avanti.

I legami di Spiaggia di vetro

La vicenda di Salvo ricorda quanto vissuto da San Paolo quando nella lettera ai Romani scrive: “in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me”.

A tal proposito sarebbe interessante guardare il film con questa attenzione: quali sono i gesti di bene e di salvezza che Salvo compie per sé e per gli altri? In che modo, questi stessi gesti, liberano dal male? Seguendo questa direzione quindi, risulta molto efficace il lavoro che il regista americano Will Geiger – che ha vissuto per tre anni tra Sicilia e Calabria seguendo la vita dei pescatori – compie a proposito del rapporto tra paesaggio (il mare come autentico personaggio e non solo come luogo) e vissuto spirituale interiore, sempre in bilico tra dannazione e salvezza, illusione e speranza.

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Sull'autore

Matteo Mazza