Il giovanissimo film maker malese Bradley Liew mette in scena la storia di Pepe, un cantante 68enne che ha trascorso gli ultimi trent’anni della sua esistenza ad essere qualcun altro: il suo lavoro, che è diventato ormai la sua vita, è imitare la star del rock Joey Smith, nel modo di cantare, vestire, parlare, mostrarsi in pubblico. La vita di Pepe è fusione tra realtà e immaginazione, desideri e allucinazioni, è smarrimento dell’identità, è vertigine provocata dal continuo sdoppiamento di sé.
A distanza di trent’anni dall’unica tournée con il grande Joey Smith, a Pepe viene presentata l’occasione di aprire un concerto del suo idolo, per il quale dovrà scrivere per la prima volta una canzone d’amore.
La cifra più interessante del film – almeno agli occhi di un occidentale, che fatica a cogliere l’estetica e la simbologia dell’opera, inestricabilmente connesse alla cultura da cui lo stesso film emerge – è il fatto che l’interprete del personaggio di Pepe è nella realtà una famosissima star, nota come il Mick Jagger delle Filippine, ovvero Pepe Smith (il cui nome all’interno del film viene scisso tra il cantante “originale” e “l’imitatore”). Si crea allora un doppio gioco di specchi a livello narrativo e meta narrativo, che provoca un’interrogazione su ciò che si è e si potrebbe essere.
Rock nel contenuto, decisamente meno nella forma, il primo lungometraggio del regista 26enne utilizza tempi molto distesi e lunghi piani sequenza, imponendo allo spettatore di osservare dall’esterno questa sovrapposizione di ruoli e amplificando il senso di solitudine che segna l’esistenza del protagonista.