E venne il cinematografo. Il piccolo, delizioso teatro comunale diventò (e ne ebbe lenta devastazione) cinema. Vi si facevano due proiezioni: il sabato e la domenica. I film erano chiamati “parti”: una bellissima parte, per dire un bellissimo film. Si era, credo, nel 1929. Non ricordo con quale film si inaugurò il cinema: ma ne rivedo, vago e intermittente come nei sogni, dei primi piani con la faccia di Jack Holt.
Ne venne a tutto il paese una passione, uan febbre, per cui dal lunedì al venerdì o si parlava del film già visto o si vagheggioava e si facevano congetture su quello da vedere.
Se ai persiani di Montesquieu fosse avvenuto di entrare, intorno al 1930, in un cinema di paese siciliano, la loro impressione sarebbe stata che lo spettacolo consistesse in quel che accadeva tra gli spettatori: e specialmente tra quelli del loggione e quelli della platea. Nel film che ora ho visto, Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, ce n’è tutto un tessuto, sulla cui veridicità non solo posso testimoniare, ma il lettore può cercare riscontro in certe mie lontane pagine (Gli zii di Sicilia).
Poiché un mio zio, impiegato municipale, si occupava della gestione del cinema, io ero uno spettatore privilegiato: me ne stavo sempre in un palco e a volte addirittura in quello centrale, che era detto del podestà (mai visto il podestà in quel palco, forse non amava il cinema, forse addirittura, affezionato al teatro, lo detestava). Quel palco aveva il vantaggio di essere accanto alla cabina di proiezione, dove negli intervalli sgusciavo non solo per far razzia dei frantumi di pellicola di cui si disseminava ad ogni proiezione ma riuscivo a convincere l’operatore, qualche volta, a tagliarmi un paio di fotogrammi dei più suggestivi. Ne avevo una collezione.
Il privilegio di stare in palco mi metteva anche al riparo dagli sputi che piovevano dal loggione: che non era di pura e semplice “vastaseria” (cioè di maleducazione), ma reazione di indignazione, di disprezzo, verso i personaggi vili, traditori e crudeli che in nessun film mancavano. Almeno così si cominciava: per indignazione. Ma alle proteste che si levavano dalla platea, quasi tutte condensate nell’insulto “figli di puttane”, agli sputi si aggiungeva il lancio di bucce d’arancia e di noccioli di pesche (secondo stagione); finché, al momento in cui i lanci diventavano più frenetici, guardie municipali e carabinieri, che se ne stavano in platea a godersi il film, non si decidevano a salire al loggione, dove sommariamente distribuivano schiaffi e calci. Riaffiorava così il suono del pianoforte: valzer di Strauss, romanze di Tosti, canzoni di Piedigrotta, “libiam nei lieti calici” e “amami Alfredo” che erano il repertorio invariabile della vecchia, mascolina e irascibile pianista che il Comune miseramente stipendiava.
(Leonardo Sciascia, Fatti diversi di storia letteraria e civile)