Il ragazzo cresce sempre solo e non si sente solo mai
Ha una voglia strana in fondo al cuore che nemmeno lui lo sa
Se sia paura o libertà
Se sia paura oppure libertà
(Il ragazzo, F. De Gregori) 

«Non arrenderti mai» suggerisce il nonno (Anthony Hopkins) al nipote Paul, nel finale di Armageddon time di James Gray, durante una scena fantasmatica in cui l’anziano, ebreo ucraino emigrato negli USA, appare come spirito amico e angelo custode del giovane, pelle chiara e capello arancione come potrebbe essere il suo sangue di inquieto preadolescente: rosso pallido. Un monito che suona come un invito a non darla vinta a quelli che non lo comprendono, che non lo ascoltano, non lo vedono e che ancora non sanno chi hanno di fronte. Adulti, ma non solo. Oggi, ma non solo.

Siamo nel Queens, nel 1980, alle soglie dell’elezione di Ronald Regan, dentro luoghi non-liberi, dentro un tempo che sembra destinato a finire, pronto ad esplodere. Luoghi e tempi e istituzioni che tolgono il respiro e in cui dilaga il pregiudizio, come alla scuola privata in cui Paul viene iscritto, fondata su successo, classismo e xenofobia da Fred Trump, padre di Donald. Il “non arrenderti” del nonno di Paul è una parola, quindi, che suona come salvezza dalle restrizioni, un richiamo a rispondere, a non sottrarsi alle responsabilità, a guardare il mondo in un modo diverso, senza rinunciare a vivere.

Armageddon time è il coming of age di James Gray, film maturo e compiuto, privo di scansioni didascaliche, che non si accomoda sui binari della nostalgia autoassolutoria ma propone fin da subito un racconto nitido, amaro e pungente senza esclusione di colpi e senza smarrire mai una tensione interlocutrice che rivela la profondità delle contraddizioni messe in scena. Se da una parte emerge in modo netto il possibile riferimento ad altre recenti narrazioni amarcord (da Spielberg a Branagh, da Paul Thomas Anderson a Linklater, con il quale il giovane Paul condivide la passione per i razzi spaziali), dall’altra, altrettanto evidenti sono le diverse analogie con altre recenti produzioni rivolte al racconto della soglia esistenziale che separa l’infanzia dall’adolescenza (si pensi a Close o a The quiet girl). Titoli che con sguardo saggio esplicitano l’aderenza a un mondo sommerso, sotterraneo, ombroso e pieno di pericoli da cui emergere, prima o poi; film che mettono a nudo le individualità dei loro protagonisti, in cui per la prima volta si determina un’affermazione della propria corporeità come spazio decisionale autonomo e non condizionato. Dentro la loro risposta si nasconde tutta la fatica di crescere, cambiare, affermare la propria identità a costo di lottare contro i mulini a vento, di rischiare la vita o, più semplicemente ma non meno drammaticamente, di rinunciare alle luci della ribalta e quindi di essere visti, accolti, applauditi. Un cinema che prende forma ricordando a tutti che credere, sperare, amare, sognare alla forma attiva traducono il tempo che l’adolescenza occupa nella vita di ciascuno: momento decisivo in cui ci si scopre pronti ad andare verso qualcosa o qualcuno, per essere accolti dall’altro come donatori di alterità, bene, originalità. Al contrario, alla forma passiva, questi verbi guardano l’adolescenza come quel luogo da abitare, ma oltrepassare, con le proprie trasformazioni e i propri limiti: tappa geografica del crescere in cui si attende che qualcosa o qualcuno venga incontro, per accogliere l’altro come portatore di alterità. Ad ogni modo, in questi film è scandito il fatto che crescere significa sempre perdere qualcosa di sé e questo, al protagonista di Armageddon time, Paul, è ben chiaro.

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Sull'autore

Matteo Mazza