Alzi la mano chi si ricorda “L’insulto”. Il film del 2017 di Ziad Doueiri partiva da un tubo rotto che generava una piccola contesa. Parole di rabbia, tra Toni e Yasser, che innescavano un’escalation di azioni e risposte apparentemente senza fine. Il processo che li riguardava si estendeva da una piccola questione privata fino all’essere una tensione che coinvolgeva l’intera comunità.

​Ecco, in “As Bestas” è come se “L’insulto” fosse stato rifatto con il linguaggio del nostro presente di guerra attiva (l’invasione Russa in Ucraina) e fredda (le tensioni tra Stati Uniti e Cina). Nella Spagna rurale di oggi (che sembra però di almeno 50 anni fa) una coppia di francesi sta cercando di realizzare un sogno “da pensione”. Vogliono riqualificare un’area morente, fatta solo di campi, pascoli ed edifici abbandonati, e portare la modernità al suo interno: coltivare con la scienza, rispettando animali e terra, e soprattutto aprire un agriturismo che possa aiutare a riconnettere le persone con la natura.

Xan, il vicino di casa di Antoine e Olga, guarda con sospetto il progetto. Nel frattempo infatti una società che si occupa di energia green si è proposta di comprare i terreni per fare un impianto eolico. Perché questo accada dovrà esserci l’unanimità tra chi possiede gli appezzamenti. Lui, consumato dalla terra, dalla fatica e dall’età, è disposto a tutto pur di cambiare vita. Antonie invece non vuole vendere. Xan guida gli altri autoctoni prima in piccoli atti di bullismo che diventano veri e propri sabotaggi.

Rodrigo Sorogoyen fa un film soffocante come la locandina che lo pubblicizza. Un’immagine impattante, ma che mal descrive questo dramma sporco, sudato e quindi realisticamente asciutto. Più filosofico che d’azione, più viscerale che di pelle.

In questo spazio abbiamo parlato spesso di paesaggi dell’anima. “As Bestas” parla di gente che dà l’anima per un paesaggio. Come accade dentro “Le otto montagne” anche qui il regista inquadra due tipi di persone: chi vive e chi arriva. È facile stare dalla parte del francese. Lui subisce una paradossale intolleranza (e già questo fa molto riflettere su quanto tutti noi possiamo essere gli stranieri di altri). Possiede quella filosofia molto moderna verso la natura, eppure Xan è convincente quando gli dimostra quanto sia naïf.

Per Antoine la terra è un’occasione di recupero di una dimensione umana perduta nella città. Per il vicino è una condanna a vita, senza possibilità di ascesa sociale. Vede per un attimo una via di uscita e vi si butta come davanti a un miraggio. Prendi i soldi e scappa. Incassa il compenso della vendita e assicurati una vecchiaia con agio, gli gridano le sue sirene. “As Bestas” colpisce più forte nella schiettezza con cui fa sentire impotenti e contemporaneamente ci interroga profondamente: “cosa avreste fatto, voi, al posto di Antoine?”.

Di film capaci di fare questo, di provocare cioè partendo da un dilemma, se ne vedono tantissimi ogni anno. Sono tutti belli, quasi nessuno eccezionale. Invece “As Bestas” lo è. Perché riesce a fare qualcosa in più con una sintesi incredibile: propone una soluzione al paradossale loop di violenza che, come bestie, travolge gli uomini, sia vittime che aggressori.

Questo spiraglio di luce viene dallo sguardo femminile, da due donne parimenti sconfitte da una lotta che non è loro. Una moglie e una madre. Sono due personaggi straordinari e opposti: una è molto attiva, moderna, tanto da farci chiedere se questa storia non sia, in fondo, la sua. L’altra è una matriarca silente, protetta dai figli, sempre in secondo piano. Il loro incontro è il grande stravolgimento della logica del film.

Si lotta sempre per qualcosa. Si smette di lottare per vivere.

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Sull'autore

Gabriele Lingiardi