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SOLO PER UNA NOTTE (Maxime Rappaz)
Le due vite di Claudine

Ogni martedì, Claudine lascia il suo figlio disabile in custodia a una vicina di casa e si reca in un hotel di montagna per incontrare uomini sconosciuti. Ha regole precise: solo uomini che si fermano per una sola notte e che non incontrerà mai più. Quando uno di loro decide inaspettatamente di prolungare il suo soggiorno sconvolge per sempre la vita di Claudine, fino ad un finale imprevedibile.

Presentato nella sezione “Acid” di Cannes 2023, Solo una notte rappresenta l’esordio alla regia di un lungometraggio per lo svizzero Maxime Rappaz, che si era in messo in luce con i due precedenti cortometraggi (Tendresse, 2018, e L’été, 2016). Un lavoro che, nonostante il budget limitato, la poca originalità del tema e scelte espressive non sempre felici, è da ascrivere alle “opere prime” di un certo rilievo realizzate negli ultimi anni.

Collocata nel 1997 in una non ben identificata località delle Alpi della Svizzera francese, la vicenda è imperniata sul personaggio di Claudine, cui dà corpo e volto una seducente quanto imperfetta Jeanne Balibar, capace da un lato di garantire al proprio personaggio quella doppiezza che dona al suo personaggio una malìa ambigua, ben restituita da un prezioso lavoro sui gesti, sugli sguardi, sulla decisione con cui agisce così come sulle esitazioni che ne frenano gli impeti; ma dall’altro di dare l’impressione di restarne sempre un po’ al di sopra, ovvero di non sposare pienamente l’orizzonte di Claudine, la visione del mondo che la muove, le profonde contraddizioni che la animano. Un personaggio insomma dall’indubbio fascino che certamente rientra tra gli aspetti positivi del film, ma che dà sempre l’impressione di fermarsi un passo prima del diapason emotivo che potrebbe elevarlo. 

L’altro aspetto decisamente positivo sta nella scelta dell’ambientazione, particolarmente efficace. Le avventure di Claudine sono infatti incorniciate in una località montana a 2300 metri di altezza, ingabbiate in una dimensione paesaggistica che dà al film una forte connotazione metaforica, laddove la divisione tra la parte in pianura e quella in montagna, ovvero tra la parte “alta” e quella “bassa”, ben riflettono la doppia vita vissuta dalla protagonista, mentre la diga che sta nel mezzo costituisce formalmente quella linea di discrimine (ma anche di equilibrio) esistente tra le due parti. Una vera e propria topografia dell’anima che Rappaz ben traduce formalmente e che dimostra anche di saper ben gestire, a cominciare dall’incipit che segue la protagonista nei suoi spostamenti in treno, tra tunnel, profondità vertiginose e tensione verso l’alto. Una sequenza che, come peraltro ha dichiarato lo stesso regista, è necessaria anche a portare il film nel territorio della fiaba, così da emanciparsi immediatamente da ogni tentazione naturalistica, ma che nelle mani di Rappaz assume una precisione sismografica.

A tali aspetti positivi, va però sottolineato che si contrappongono scelte invece più convenzionali, a cominciare da alcune ridondanze dello script, a una fotografia di sicuro impatto ma la cui organicità talvolta cede al pittoricismo e a un cast non pienamente convincente — soprattutto per quanto riguarda il ruolo rivestito da Pierre-Antoine Dubey, nei panni del figlio disabile di Claudine, la cui credibilità non è sempre irreprensibile.

Titolo originale: Laissez-moi

Regia: Maxime Rappaz

Con Jeanne Balibar, Thomas Sarbacher, Pierre-Antoine Dubey

Svizzera/Francia/Belgio 2023

Durata: 93’

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Sull'autore

Francesco Crispino

Francesco Crispino è docente di cinema, film-maker e scrittore. Tra le sue opere i documentari Linee d'ombra (2007) e Quadri espansi (2013), il saggio Alle origini di Gomorra (2010) e il romanzo La peggio gioventù (2016).