Oggi esce il film La voce di Hind Rajab, la bambina di Gaza – una per tutti – morta sola in un’auto crivellata con 335 proiettili accanto ai corpi dei parenti già deceduti ore prima. Dell’opera della sceneggiatrice e regista Kaouther Ben Hania si è scritto tantissimo in occasione della sua presentazione alla 82° Mostra del Cinema di Venezia e del riconoscimento ratificato con il Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria. Del film si sa praticamente tutto, non tanto e solo per le anteprime festivaliere, ma soprattutto perché si tratta di una trasposizione millimetrica di un fatto realmente accaduto ricostruito nelle sue spietate responsabilità dalle virtuose inchieste giornalistiche del Washington Post.
Era il 29 gennaio 2024, era un lunedì. Confesso di essere andata a scorrere nella mia agenda dello scorso anno dov’ero in quel momento di profonda oscurità della nostra umanità. Però ricordo i miei appuntamenti del 7 ottobre 2023. Di quante morti non sappiamo e non ricordiamo cosa stavamo facendo? Di questa però abbiamo tutto: in Italia il reportage con i file audio delle telefonate della bimba di non ancora sei anni con i volontari della Mezzaluna Rossa, che si vedono anche in video, è stato curato da Fabio Tonacci (inviato a Ramallah) e Laura Lucchini per Repubblica. Mettendo insieme tutti i pezzi di chi davvero fa giornalismo – e si capisce allora perché per alcuni è bene non avere i giornalisti nei teatri di guerra o ucciderli come fossero parte nemica – la sorte di Hind, di fatto come è arrivata a morire, è tutta già assolutamente alla luce del sole del web.
Fiducia nel cinema
Come dire, non servirebbe nemmeno andare al cinema. Diciamolo pure anche a nostro discapito, ma di fatto è così se rimaniamo ad un livello informativo. Perché andarci, allora, e come andarci? Per capire cos’è il cinema, e qui siamo nei dintorni di un caso da manuale che rimarrà nella storia di quest’arte, e quale spazio può avere nella vita di una comunità. Semplicemente, stop.
Non riporteremo in vita nessuno, non leniremo il dolore di una madre che non ha potuto salvare la figlia – e qui davvero riluce la drammatizzazione di che cosa può aver provato Maria che non ha potuto impedire la croce al Figlio –, non cambieremo le sorti della Palestina finché le forze in causa governative locali e internazionali non faranno il possibile per farlo, non limiteremo la produzione di armi anche in Italia. Metteteci anche le vostre declinazioni. Non basta un biglietto. Nemmeno due. Tre… milioni di biglietti.
Eppure il cinema può cambiare il nostro modo di sentire, questo sì… è un’anticamera eccellente in tal senso – ancora però sufficientemente lontana da ogni possibile svolta – verso una scelta che impatti anche sulla politica di tante azioni quotidiane che sul lungo termine che possono cambiare il mondo. Lavora sulla sensibilità di uno sguardo.
Allora il cinema vale poco? Il cinema apre gli occhi, le orecchie, risveglia i sensi di persone isolate tra loro da un capitalismo, anche digitale, scellerato. Una svogliatezza dell’anima che si chiama indifferenza. Non è poco, è appunto un’anticamera che si inserisce dentro a tante dimensioni che fondano la nostra volontà, la nostra adultità. Un esempio: le persone che hanno visto Green border sono tornate un po’ in vita, ecco il risveglio, anche se inizialmente all’uscita dal cinema erano tramortite. Il cinema sta in quella soglia tra vita e morte.
Un film ben governato, ma non per bambini!
Come sappiamo Ben Hania ha realizzato un film ibrido caratterizzato da un composto di finzione – la messa in scena del setting della Mezzaluna Rossa a Ramallah – e di contributi sonori originali della realtà – la voce di Hind che rimane come una traccia imperitura dell’oscurità che sta ancora oggi segnando la terra di Palestina («Venuto mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio» Marco 15,33) – altamente rischioso ma, a detta di tutta la critica, ben governato. E siamo d’accordo anche noi.
É una chimica filmica estremamente destabilizzante in termini emotivi e per questo più volte abbiamo consigliato questo film a giovani e adulti, in pratica almeno dalla secondaria superiore, ma non di certo per bambini e ragazzi con la consapevolezza che non vanno imputate a loro, nemmeno in termini emozionali dettati dall’arte, le responsabilità degli adulti. Senza contare il dovere imprescindibile di preservare la fase evolutiva che ciascuno di loro sta attraversando, non esponendola ad uno stress ingiustificato difficile da gestire anche per un adulto preparato e sensibile. Le anteprime al Lido di Venezia non hanno lasciato dubbi in tal senso.
Ci sentiamo, quindi, in disagio con l’indicazione del +10, ma possiamo soltanto dove possibile aiutare le famiglie a pensarci ancora un secondo prima di portare dentro ad esempio un ragazzino che al mattino entra in una classe quinta della scuola primaria. Forse anche questo +10 è davvero un segno dei tempi della fatica degli adulti di esserlo davvero e di dare valore a tutto quello che le neuroscienze e altre discipline ci stanno insegnando. Di certo la biglietteria è un luogo sempre più strategico per una sala viste le competenze che bisogna mettere in campo anche in situazioni di questo tipo.
Il bar è chiuso, parla Hind!
Anche perché poi è un attimo passare alla fase 2: dopo la biglietteria arriva lo step “mamma, prendiamo le pop corn!”. Con quel tono assertivo che noi adulti abbiamo saputo dislocare magicamente nell’infanzia. Ma questo è un altro tema. E lì si fa (si farebbe) più buio ancora di quello del 22 gennaio 2024. Le pop corn ogni volta che Hind muore di nuovo: perché questo è uno dei tanti rischi di fare film così al limite. Un rischio osceno per quanto banale. Davvero, lo giuro con buona pace di chi mi maledirà, mi sono chiesta se è giusto vendere pop corn da portare nella sala che proietta La voce di Hind Rajab, se davvero dobbiamo sentire la voce di una bambina che non c’è più e che morirà ancora una volta sullo schermo con lo “scronch” diffuso. E non è un problema radical chic della purezza della visione. Qui, davvero, è un tema di rispetto della sacralità che Ben Hania è riuscita ad infondere nei tanti livelli della sua opera. Non arrivo all’incenso, ma non tutti i film sono uguali. Alcuni si avvicinano davvero ad una liturgia che chiede la cornice all’altezza dell’opera.
Nel film di Ben Hania i personaggi pregano insieme al telefono, parlano di cosa piace a Hind, di che cosa le fa paura tra uno sparo e l’altro, del suo bisogno di avere un adulto che la andrà a prendere subito, subito, subito. E nel mentre quelli che c’hanno provato sono morti a una manciata di metri da lei, quello spazio che a volte separa una persona dalla biglietteria alla poltrona. Ecco, in quello spazio preparatevi ad un rito che non è obbligatorio ma che se decidete di viverlo ha delle regole e speriamo che le sale della comunità sappiano essere esemplari.
Il bar è chiuso, signori (e signore)!
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