Estela trova lavoro al The Grill, ristorante iperfrequentato di New York. Un po’ per caso, un po’ no. Al The Grill il menù è vasto perché la clientela è onnivora e chi lavora in cucina, in sala, negli uffici corrisponde al bisogno di soddisfare il cliente nonostante le proprie ansie e frustrazioni, ognuno con i suoi problemi, ognuno con le sue isterie. C’è anche la storia di Julia, alle soglie di una decisione importante, e di Pedro, cuoco e istrione.
Lo sguardo interpellato
Il film ci chiede: cosa si nasconde dietro l’immagine del mondo che ciascuno di noi si crea? Quali sono le piccole grandi verità che il vissuto quotidiano ci offre? Chi è l’altro e perché ci fa paura? Che cosa è diventato, oggi, il lavoro e come è possibile comprenderne le radicali trasformazioni? Inoltre, se il lavoro è una relazione, non deve includere la dimensione della cura? Qui viene messo in scena il cuore dell’America, colmo di poveri frustrati, invisibili che, in senso paradigmatico, sputano sangue e sudore, orgoglio e fatica per una terra che ha creato un sogno forse mai esistito.

Il paesaggio dell’anima di Aragoste a Manhattan
Quando Papa Francesco in più di un’occasione si è speso per riflettere sulla questione (drammatica) del lavoro, la riflessione si è concentrata sulle nuove strategie legate allo sviluppo di una cultura della solidarietà volte a contrastare la cultura dello scarto, all’origine di ogni disuguaglianza. Ecco, a partire dal racconto di ciò che nutre l’interno di una cucina di Manhattan, il film di Alonso Ruizpalacios ricrea un mondo dentro un mondo abitato da etnie, lingue, sguardi e umanità spezzate alla ricerca di un appiglio, nel tentativo di non soccombere a quanto accade fuori dalle mura e dai fornelli di un ristorante che propone un menù vastissimo rivolto a clienti onnivori.
E infatti, il regista è poi attento nel definire le ragioni che spingono questo piccolo pezzo di mondo prima a raccogliere gli urti e le acide tensioni tra i colleghi, poi a deragliare, implodere e perforare ogni convinzione con la sua frenetica voglia di divagare e ribaltare le convenzioni, le aspettative, i pregiudizi, l’idea di armonia. È un film folle fin dalle prime inquadrature, che vuole provocare lo spettatore per come lavora sugli spazi, le luci, i corpi: un bianco e nero saturo, una regia che esaspera le geometrie e ridefinisce il concetto di chiusura, scelte che amplificano il senso di continuità e linearità del tempo con l’uso sfrenato del piano sequenza contraddicendo proprio l’idea di frammentazione che innerva la narrazione.
Teatro dell’assurdo, girone infernale, la cucina del The Grill è lente di ingrandimento per conflitti e unioni, confini e evasioni: «questo è il mio spazio» rivendica il cocinero Pedro a una cameriera, trasformandosi da vittima in carnefice. Storia corale, commedia grottesca, satira sociale intinta di giallo (sono spariti 800 dollari), metafora del tempo (oggi, ieri, domani) ma soprattutto film sugli affetti e la solidarietà, come evidenzia uno degli episodi più significativi: non una semplice offerta in denaro a una persona bisognosa, in questo caso le aragoste, bensì atteggiamento complessivo di cura nei confronti di chi si trova nell’indigenza. Uno strumento per fare del bene e non un fine.
I legami di Aragoste a Manhattan
Gli appassionati di The bear, serie giunta alla quarta stagione, troveranno molte analogie, più che in tanti titoli cinematografici che hanno usato il cibo e la cucina per raccontare il mondo. A proposito di “elemosina”, per i più curiosi vale la pena recuperare il concetto di ṣedāqâ (cfr Siracide 7,10b; 12,3b; 16,14a; 40,24b; e anche 29,8b.12a; 35,4), con cui non si intende solo un concetto giuridico, ma anzitutto relazionale: la giustizia è la condizione di armonia fra i membri di una comunità. Per ristabilire la condizione di armonia occorre la solidarietà.
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