Che fatica empatizzare con donne debolmente riconcilianti, scarnamente affettive, raramente “brave ragazze”. Eppure che liberazione, se si riesce a trovare un posto nella poltrona, e vivere un po’ le loro epoche, nutrirsi delle montagne russe interiori che attraversano, girare a vuoto – secondo i nostri parametri – e più spesso anche abbandonare legami che potevano essere tangenziali di senso dentro ad esistenze altamente incasinate. Stare con Freddie di Ritorno a Seoul di Davy Chou è disorientante come lo era stare con Julie di La persona peggiore del mondo di Joachim Trier o con Rakel di Ninja Baby di Yngvild Sve Flikke o ancora, la lista è ghiotta negli ultimi tempi, con Laura di Scompartimento n. 6 di Juho Kuosmanen ma anche Amanda, per rimanere alle nostre geografie, del film omonimo di Carolina Cavalli. Sono tutte ragazze, donne in divenire, tra i venti e i trent’anni che a latitudini diverse attraversano l’incertezza senza una bussola, si nutrono di precarietà relazionale, identità in mare aperto che affrontano il domani senza una progettualità, esposte alle imprevedibili sollecitazioni altrui in modo spropositato.
Freddie ha 25 anni. Francese con origini coreane, è stata adottata da piccola e ama molto il Giappone, dove si sta recando nuovamente ma il suo volo salta all’ultimo palesandole la possibilità in pochi istanti di prenderne uno verso quel “vaso di Pandora” che si chiama Corea. Apprenderemo solo durante che questo disguido è il motivo che l’ha portata finalmente dove il suo volto è ritenuto quello di una coreana d’altri tempi, elegante quel tanto che Freddie – Park Ji-Min, attrice non professionista – non vanta nel suo temperamento molto impertinente.
Freddie mette piede in Corea letteralmente con le orecchie, con la voglia di sentire che rumore fa quel mondo che finora nella sua vita è andato sotto l’etichetta “abbandono”. La giovane ragazza ritornerà in Corea più volte durante il film sempre più matura, spaccando l’opera in termini narrativi in altrettante parti, e ricongiungendosi con le sue origini ad ogni giro sempre “a sentimento”, portando il film su un piano marcatamente emotivo. La ragione non è la cifra del ritorno e ne dà contezza la sequenza di apertura in cui Freddie, appena atterrata nella terra amniotica, chiede in prestito le cuffie che indossa la ragazza alla reception dell’albergo.
Non sappiamo se Freddie è pronta per l’ingresso nel nuovo mondo. Non sappiamo nulla di lei nella lunga anticamera francese, il vecchio mondo. Chou, francese di origini cambogiane, ci impegna in un viaggio senza carta d’identità. Ci pone nella condizione di stare nella postura di Gesù in Samaria, a Sicar. Lì, al pozzo del Vangelo di Giovanni, le sue parole per la donna che giunge ad attingere l’acqua sono «dammi da bere». Così è Freddie perché «fammi sentire» significa esporsi senza filtri, lasciarsi ferire da quanto verrà verso di me, permettere all’incognito di plasmarmi.
Entrare nella “terra della nascita”, così come recita una poesia citata in Ritorno a Seoul, è per Freddie una lettura a prima vista, il suonare uno spartito che non conosci e deciderlo su due piedi perché impari a cogliere i segni. E’ un’esperienza non preparata come per il padre, al quale si ricongiungerà in modo struggente quanto maldestro, che vuole mostrarle dove è nato e cresciuto. Nella terra della nascita sono sepolte forze ancestrali capaci di terremotare la nostra vita? Di risemantizzare la nostra identità? Dimentichiamo le brave ragazze, non solo. Con un viaggio surreale e minimalista, dove nulla è nitido come la figura sfuocata della madre biologica che entra verso la fine, Chou induce le nostre emozioni nel percepire tutti quei movimenti dell’umanità e il dislocamento del sé che genera ciascuno di essi.
La domanda che rimane sulla pelle alla fine di un film pieno di smarrimento, dove chi è stato abbandonato non ha timore di mettere in campo la medesima dinamica, non è tanto “cosa sa in più Freddie di sé”, quanto piuttosto “chi è in più” quest’ultima. Ritorno a Seoul è un film circolare che si apre e si chiude sempre in un albergo (il luogo di passaggio per definizione) e che attraverso la vicenda di un’adozione – una sola, senza nessun intento esaustivo e sociologico – ci guida a percepire la complessità, ancora una volta, del nostro stare al mondo. Come accade alla profondità di campo delle inquadrature che man mano si allargano pari passo con una presunta serenità ma, per dirla con gli aggettivi del regista, tutto rimane «instabile, insoluto e in continua evoluzione». Le brave ragazze non esistono. Le identità granitiche, nemmeno.