In occasione del Leone d’Oro alla carriera conferito a Werner Herzog, la Mostra del Cinema di Venezia 82 presenta fuori concorso Ghost Elephants, nuovo documentario dell’82enne regista tedesco. Pur muovendosi all’interno delle regole e delle convenzioni del documentario naturalistico in stile National Geographic (che produce anche l’opera), il film si configura come un’indagine sui sogni e sui desideri umani, messi a confronto con la realtà.
Il progetto nasce dall’incontro tra Herzog e il sudafricano Steve Boyes, biologo della conservazione e National Geographic Explorer, che invita il regista a seguirlo nella ricerca di un misterioso branco di “elefanti fantasma” sull’enorme altopiano dell’Angola, quasi del tutto disabitato. Proprio da lì, secondo gli studi di Boyes, proverrebbe “Henry”: un elefante di 11 tonnellate e 4,3 metri d’altezza, i cui resti sono oggi conservati allo Smithsonian Institution di Washington D.C. Accompagnando la spedizione, Herzog documenta le tracce di quelli che potrebbero essere i più grandi mammiferi terrestri del pianeta, attraversando territori incontaminati e ancora privi di antropizzazione. Ben presto, tuttavia, il viaggio si rivela tanto reale quanto interiore: per gli esploratori diventa un confronto non solo con la possibilità concreta dell’esistenza di questi animali, ma anche con il significato intimo e profondo dell’inseguire con ostinazione un sogno.
È proprio su questo punto che si concentra lo sguardo di Herzog. Alla domanda del regista sul rischio che gli elefanti fantasma possano non esistere affatto, Boyes risponde: «Se sono un sogno, meglio, perché posso continuare a cercarli per tutta la vita». Parole che aprono a un’interpretazione ulteriore: la ricerca non come mezzo, ma come fine ultimo; il sogno non come illusione, ma come energia vitale che alimenta la possibilità stessa di continuare a sognare. Finché questi animali resteranno avvolti nel mistero, ci sarà forza per cercarli anche nei luoghi più ostili della Terra. È un tema che attraversa tutta la poetica herzoghiana, e che trova un’eco evidente nella celebre battuta di Fitzcarraldo (1982), quando Claudia Cardinale dice: «Chi sogna può spostare le montagne».
La scelta di documentare soprattutto il processo della ricerca, lasciando che gli elefanti siano evocati più che mostrati — ricordati, imitati, trasfigurati in immagini allusive e oniriche, quasi a diventare uno sfondo distante dalla concretezza degli eventi — offre allo spettatore l’occasione di riflettere se non sia forse preferibile conservare vivo il sogno della loro esistenza piuttosto che verificarne la realtà.
Ghost Elephants diventa così non solo un film sugli elefanti, ma una meditazione sul valore del sogno e sul ruolo del limite. Perché il limite non è sempre un ostacolo da abbattere: può trasformarsi in principio dialettico, nel segno che dà senso e consistenza al nostro desiderio, finché esso continua a resistere.
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