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Ispirato a Mother Ann (Madre Anna), la mistica inglese vissuta nel secondo Settecento, nota per aver fondato il movimento religioso millenarista degli Shakers e diviso in tre parti che ne scandiscono il percorso da Manchester al New England alla ricerca di una terra nella quale poter realizzare la propria idea utopica di comunità, il terzo lungometraggio di Mona Fastvold è certamente la sua opera più ambiziosa e sperimentale. Realizzata con il compagno Brady Corbet – che si è occupato della produzione, dela regia della seconda unità e ne co-firma la sceneggiatura – Il testamento di Ann Lee è infatti un testo eccentrico rispetto alla produzione contemporanea, che non ha e non vuole mezze misure e che in tal senso può risultare respingente o attraente per lo spettatore a seconda dell’adesione che viene stabilita con la protagonista, fanatica religiosa ma anche protofemminista in grado di creare i presupposti di una comunità dai valori condivisi, interpretata da un’Amanda Seyfried nella sua performance più memorabile. Un testo caratterizzato da formalizzazione radicale e pletorica, che oscura la narrazione fino a fagocitarla, ma capace comunque di esprimere un’idea di cinema diverso e non allineato. Laddove il discorso di Fastvold & Corbet è infatti incentrato sull’utilizzo non convenzionale della danza e della performing art, dall’affascinante colonna sonora (firmata da Daniel Blumberg) in grado di innervarsi nelle sue pieghe semantiche e dalla seducente fotografia di William Rexer, che utilizza tre tipologie di pellicola (dal 16mm al 70mm) per restituire il percorso di illuminazione della protagonista e della sua comunità. Un discorso che dialoga fortemente con il precedente titolo realizzato dalla coppia – The brutalist, con la regia di Corbet -, laddove entrambi sono film sugli Stati Uniti e sulle loro contraddittorie radici, ovvero sul territorio in cui sia stata possibile l’idea di libertà, ma anche quello dove è stato altrettanto facile corromperla per reiterare la norma.
