LA VIDEORECENSIONE
IL TESTO
Popolare e meticcio, il cinema di Gabriele Mainetti si definisce attraverso tali coordinate e il suo terzo lungometraggio, che segue il celebratissimo Lo chiamavano Jeeg Robot e il più ambizioso ma meno fortunato Freaks Out, sembra consolidarne l’idea che lo sostiene. Un progetto espressivo nel quale modelli tradizionali del cinema italiano sono contaminati con forme e generi di aree geografiche e culturali lontane. Anche la La città proibita è infatti informato allo stesso modo, con la commedia all’italiana mescolata al gongfu film — ovvero il genere nel quale il revenge movie è contraddistinto dall’utilizzo delle arti marziali e da combattimenti a mani nude —, reso celebre dalla produzione hongkonghese anni ’70 e successivamente diffuso anche in altre cinematografie (esemplare in tal senso è il Kill Bill di Quentin Tarantino). Un’operazione che il regista romano padroneggia bene, dimostrandosi uno degli shooter più solidi del cinema nostrano, ma che sembra funzionare solo in parte, soprattutto per una narrazione non sempre all’altezza della messinscena. Firmato dallo stesso Mainetti insieme alla coppia di sceneggiatori più in del momento, Stefano Bises e Davide Serino, lo script ha infatti un andamento mercuriale, con un inizio scoppiettante e pieno di brio, che raggiunge l’apice nel sagace passaggio dall’ambientazione cinese a quella romana, interamente incentrata nel quartiere romano dell’Esquilino, ma con una seconda parte meno ispirata a causa soprattutto dei tanti (e forse troppi) cliché cui ricorre. Aspetto che inficia l’esito complessivo del film, ma che non ne riduce i pregi tra i quali, oltre alla regia di Mainetti, vanno annoverati la seducente fotografia di Paolo Carnera, il vorticoso montaggio di Francesco Di Stefano e la buona prova corale degli attori — con menzione speciale alle due donne protagoniste, la cinese Yaxi Liu e Sabrina Ferilli.
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