Fatima ha 17 anni, è una musulmana osservante, frequenta l’ultimo anno di liceo, vive nella periferia parigina, con due sorelle più grandi, in una famiglia di origini algerine, affettuosa e serena. È la sorella più piccola, come evoca, fin dal titolo, il film di Hafsia Herzi, al terzo lungometraggio da regista oltre che stimata attrice lanciata quasi vent’anni fa da Abdel Kechiche in Couscous. Tratto dal romanzo autobiografico di Fatima Daas e racchiuso in cinque stagioni, da primavera alla primavera successiva, La petite dernière racconta con pudore e sensibilità una ricerca identitaria dalle intime scosse telluriche, un dissidio interiore determinato sia dalle pulsioni affettive, che portano la ragazza lontano dalle tradizioni culturali e religiose nelle quali è cresciuta, sia dal richiamo ad una dimensione parentale, accogliente e sottilmente comprensiva, che Fatima sente, in ogni caso, di non dover turbare.
Un conflitto, tutto emotivo, su come assecondare i propri desideri in nome di Allah, su come far coesistere l’attrazione per le donne e la devozione a Dio. Nel restituire sullo schermo le mute, soffocate lacerazioni del suo personaggio, l’esordiente Nadia Melliti offre un’interpretazione convincente, capace di tenere insieme, per l’appunto, le spinte all’emancipazione, da parte di Fatima, e il suo percorso di fede, anche se il film della Herzi, superata l’ora di proiezione, si irrigidisce in un’insistita, schematica osservazione della giovane in casa propria, in dialogo con madre e sorelle, in discoteca e nelle uscite serali, con i suoi nuovi compagni di università, nel suo raccoglimento in preghiera, sfociato in un incontro, coraggioso ma non risolutivo, con un imam. Ma è ancora tra le pareti domestiche, in una delle sequenze conclusive del film, che La petite dernière rivela la forza di uno sguardo paziente e inclusivo. Non ancora, forse, per Fatima, la piena accettazione di sé e della propria complessità di vita, ma un invito disteso a procedere in quella direzione.
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