Il regista ginevrino Maxime Rappaz esordisce con un’opera misurata e raffinata sul pensarsi donna, un What Women Want costruito tutto attorno all’interpretazione magnetica di Jeanne Balibar, imprescindibile nell’impostazione della voce. Ça va sans dire che la proiezione in vos (versione originale sottotitolata) renderebbe ragione di una prova magistrale dove il sonoro è già metà del film.
Lo sguardo interpellato
Il film ci chiede: si può vivere un’intera esistenza “protetti” dai propri schemi comportamentali di funzionamento? Quali strategie di coping abbiamo messo in atto di fronte a situazioni fortemente stressanti? Quando quest’ultime possono incontrare un indebolimento? È, allora, la soglia per un cambiamento? O siamo soltanto di nuovo in pericolo?

Il paesaggio dell’anima di Solo per una notte
Fine anni ’90, un paesaggio montano: una donna è su un treno di spalle. Scende. Attraversa la strada sulla diga. Prende la funivia. Entra in un albergo dove la conoscono. Sceglie col il giovane addetto alla reception un cliente dell’hotel con cui intrattenersi, a patto però che quest’ultimo sia in partenza dopo poche ore. Mentre ritaglia da una rivista sagome di Lady D da portare a casa al figlio, la donna sorseggia del vino: è il tempo utile per far cadere il “bencapitato” nella tela di una sarta di valle.
I preliminari prevedono una conversazione rigorosamente descrittiva sulla provenienza dell’uomo per poi passare ad un po’ di sesso in camera e non sempre così appagante. Il tempo di rimettere il vestito bianco della festa dei sensi e ripercorrere la strada verso casa, ma non prima di aver scritto una lettera da imbucare firmata dal padre per il figlio tutta ambientata nel paesaggio del temporaneo amante: ecco, ora, Claudine può riprendere il figlio e interpretare la sua routine. Nel mentre la lettera arriverà – da Firenze, Brighton, Amburgo… – e l’incantesimo di una famiglia “completa” tradizionale sarà di nuovo garantito.
Solo per una notte è il ripetersi di questo schema e chissà da quanto dura. Solo per una notte è anche il guasto al sistema con il sopraggiungere del sentimento accanto al piacere che manda in cortocircuito l’equilibrio di una vita.
Rappaz assieme a Marion Vernoux e Florence Seyvos immagina una donna che non vuole privarsi di nulla: durante viene da chiedersi se è davvero possibile nella condizione di Claudine avere tutto, avere anche l’amore. Quel sentimento che non si sovrappone all’affetto per il figlio Baptiste che ancora dipende da lei per la sua disabilità psicomotoria. La “spesa” settimanale di piacere di Claudine è una libertà, oltre ogni stereotipo, che la porta ad incontrare Michaël (il tedesco Thomas Sarbacher) che ridimensiona l’ordine di priorità dei tanti personaggi che abitano Claudine e ciascuno di noi. Una nuova sintesi o alcuni di loro saranno destinati alla scena pubblica delle terre basse ed altri relegati al nascondimento delle terre alte? A questa altitudine c’è la sospensione dell’incredulità: Claudine crede al piacere e crede al padre di Baptiste, immaginandolo ogni volta in una città diversa. Tiene insieme trasgressione e norma, desiderio e istituzione, donna e madre, eleganza e veste di servizio.
Solo chi decide di conoscerci davvero può premere il pulsante che avvia una vitalità inattesa, un cambio di passo della donna che veste i tacchi a 2500 metri. È la responsabilità meravigliosa, teniamolo a mente in sala in un commento, che abbiamo verso gli altri. A noi poi perderci e rimetterci a posto in un nuovo ordine con tutto lo spaesamento che travolge anche la protagonista. Una cosa è certa: non è il tempo di una funivia. Cinema in purezza, in tal senso, la resa dell’ansia di Claudine davanti al bus che dipinge l’urlo silenzioso di Munch sul suo volto, privandoci all’improvviso di quella voce che avevamo imparato a seguire come nelle migliori fiabe.
I legami di Solo per una notte
Rappaz confeziona un film che si inserisce nella tendenza del cinema europeo di raccontare periferie di umanità femminile che più spesso non incendiano il box office, ma che aprono il sipario su pagine della realtà sempre fuori dai riflettori. Non sono influencer di nulla. Non hanno tempo per esserlo. Sono incatenate al mistero di aver messo al mondo un figlio che non è quello che avevano in testa. Spesso sono rimaste sole, perché il lui della coppia è scappato verso fiabe migliori.
È il tema delle madri strette ai loro figli con disabilità o neuroatipicità per decenni e decenni in bilico tra la sopravvivenza economica e la routine di cura, ma senza retorica che nel film viene spazzata via da una battuta campo/controcampo rapida come una mitragliata di semplicità: “La ammiro!” / “È mio figlio!”. Appena uscirà, nella primavera di I Wonder, andrà quindi programmato anche Mon inseparable di Anne-Sophie Bailly, probabilmente in sala con il titolo inglese My everything, che pur muovendosi nello stesso mindscape ci regalerà un film completamente diverso.
- Sullo stesso film: SOLO PER UNA NOTTE (Maxime Rappaz)
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