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SONS (Gustav Möller)
Il grembo penitenziario

Eva, un’ufficiale carceraria idealista, si trova di fronte a un dilaniante dilemma quando un giovane legato al suo passato viene trasferito nella prigione in cui lavora. Senza rivelare il proprio segreto, chiede di essere trasferita nel reparto dove è imprigionato il giovane, il più duro e violento del carcere. Atto da cui scaturisce un inquietante thriller psicologico, in cui il senso di giustizia di Eva mette in gioco sia la sua moralità che il suo futuro.

Sons segna il ritorno dietro la macchina da presa di uno dei più talentuosi giovani registi scandinavi, segnalatosi già nel 2018 con una notevole opera d’esordio. Den skyldige (The Guilty) si era distinto infatti per essere un vibrante thriller psicologico mescolato al poliziesco che — similmente al celebre Sorry, Wrong Number, 1948 di Anatole Litvak — ha la propria originalità nell’adozione di una struttura dialogica e di una drammaturgia “telefonica” (l’intera azione si svolge infatti durante una telefonata tra due interlocutori), che mettevano già in evidenza uno stile riconoscibile, connotato da un rimarchevole lavoro sullo spazio (circoscritto a una stanza e due corridoi di una centrale di polizia) e sul tempo del racconto ( in tempo reale), ma anche un orizzonte discorsivo definito, informato da una riflessione sulla colpa e le sue conseguenze. 

Quasi tutti aspetti che tornano, potenziati, anche in Sons. Dove si ritrova la medesima operazione sul genere — ancora una volta il thriller psicologico, benché qui si mescoli con il Prison e il Revenge movie. La stessa tipologia di protagonista — che, anche se qui è di sesso femminile, è ancora una volta un ufficiale di polizia. Così come il medesimo tentativo di raccontarne le dinamiche psicologiche, restituite da una camera che, tranne in un’occasione, non l’abbandona mai, cercando di catturarne le implosioni e di restituirne le contraddizioni — con la magistrale interpretazione di Sidse Babett Knudsen a dare corpo vibratile  all’operazione. La stessa adozione di uno spazio del racconto circoscritto, quello del carcere, varcato solo in un’occasione, la cui dimensione claustrofobica viene addirittura accentuata: sia dal modo in cui Möller sceglie di incorniciarlo, ricorrendo a un insolito formato quadrato di 1:1 che costringe i corpi nel quadro togliendo loro, fin dalla sua mise en espace, ogni spiraglio “d’aria”;  sia di “lavorarlo”, con il reiterato ricorso a inquadrature intersecate da linee che ne rielaborano le geometrie per restituire identità fratturate, liquide, scisse. Così come ancora una volta il discorso del film è informato da una riflessione sulla colpa e sul senso che produce, benché qui esso allarghi la propria meditazione anche al rapporto tra madri e figli e a quello tra vittime e carnefici, che peraltro la pregevole struttura a chiasmo dello script (firmato dallo stesso Gustav Möller insieme a Emil Nygaard Albertsen) serve perfettamente. Riflessione che raggiunge il proprio acme nel momento in cui la dimensione scopica e corporale che domina la narrazione si rispecchia in quella metafisica, proprio nell momento in cui quella claustrale è squarciata dall’unica (im)possibile apertura. Quella di un cielo finalmente presente, muto testimone dell’umana impurità.

Titolo originale: Vogter

Regia: Gustav Möller

Con Sidse Babett Knudsen (Eva), Sebastian Bull Sarning (Mikkel)

Danimarca, 2024

Durata: 100’

 

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Sull'autore

Francesco Crispino

Francesco Crispino è docente di cinema, film-maker e scrittore. Tra le sue opere i documentari Linee d'ombra (2007) e Quadri espansi (2013), il saggio Alle origini di Gomorra (2010) e il romanzo La peggio gioventù (2016).