News Filmcronache Approfondimenti

Bergman e Olmi: il silenzio e la voce di Dio
Un prezioso patrimonio di “memorie spirituali” da non lasciar scivolare nell’oblio

Nel centenario della nascita dell’autore de Il settimo sigillo e a poche settimane dalla scomparsa del regista de La leggenda del santo bevitore, una ricognizione attenta alle loro opere incentrate sullo specifico rapporto tra l’uomo e l’Assoluto permette di riscoprirne analogie e similitudini, istanze e distanze.

 

Nell’anno del centenario della nascita di Ingmar Bergman (Uppsala, 14 luglio 1918) e della recente scomparsa di Ermanno Olmi (Asiago, 7 maggio 2018), il mio intento è provare qui a ri-pensare quel che, a partire da specifiche ed esplicite tematiche religiose, può ancora oggi accomunare e/o differenziare i due autori l’uno (d)all’altro.

Premesso che già nel 1961 Bergman era convinto che nell’arco di qualche decennio molti dei suoi film sarebbero stati dai posteri dimenticati, proviamo qui a ricordare i soli su cui, nella stessa intervista, riteneva valesse la pena lavorare: quelli incentrati sul rapporto tra uomo e Dio. Per i quali, richiamandosi a O’ Neill, sosteneva che proprio la questione etica si presta a una drammaturgia nella quale specchiarsi o, appunto, ri-specchiarsi (Oldrini 1965: 44).

“Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia”: il versetto, tratto dalla prima lettera di san Paolo ai Corinzi, ispira Come in uno specchio (Såsom i en spegel, 1961), il primo titolo della cosiddetta “trilogia del silenzio di Dio” di Bergman, della quale fanno parte anche Luci d’inverno (Nattvardsgästerna, 1963) e Il silenzio (Tystnaden, 1963). Un’opera che di fatto rispecchia l’esistenza oscura e incerta, fragile e inquieta dei suoi quattro protagonisti, tra cui soprattutto Karin (Harriet Andersson) e Minus (Lars Passgård), una donna schizofrenica e il fratello diciassettenne che, come dei bambini rinchiusi sull’isola di Fårö insieme a David (Gunnar Björnstrand), il padre-scrittore di entrambi, e a Martin (Max von Sydow), il marito-medico di lei, sono alla ricerca di un padre biologico e divino che possa loro parlare, dare delle risposte o comunque rivelarsi.

Egoisti e distratti, casti e incestuosi, ognuno di loro quattro vive nel timore e nell’attesa di un Dio che però si manifesta sempre laddove non ci si aspetta che sia. Per esempio al di là della porta aperta, oltre la quale Karin, in continuo transito tra due mondi, quello reale e il suo altrove malato, intravede un dio-ragno dalle fattezze ripugnanti e dallo sguardo raggelante che, causandole un’ultima crisi di nervi, non fa che condannarla a una prigionia psichica e a una detenzione ospedaliera senza guarigione. Eppure formalmente ricorre nel film l’inquadratura di una porta d’ingresso socchiusa, dalla quale, in un chiaroscuro tanto espressionistico quanto simbolico, una luce filtra, ma evidentemente non per lei, bensì semmai per suo padre e suo fratello. I quali nel finale, ripresi in PP, con alle spalle una finestra che dà sullo stesso mare da cui i personaggi sono comparsi in apertura, su Dio si interrogano e, sia pure in modo un po’ didattico, come ebbe a lamentarsi il regista (Bergman 2009: 209), una risposta la trovano. Meglio, a farlo è David, il quale ha parole consolatorie per Minus, che qui appare disperato ed emotivamente ancora turbato dall’incesto sfiorato con sua sorella appena internata.

Dichiara David che Dio “è la certezza che l’Amore esiste come cosa concreta in questo mondo di uomini” e, aggiungendo che ciò vale per “ogni genere d’Amore, il più elevato e il più infimo, il più oscuro e il più splendido”, di fatto assolve il figlio e se stesso, come anche Karin, il marito e l’intera compagnia ormai divisa. Ma allora, domanda Minus rinfrancato, “l’Amore è una dimostrazione di Dio? Per te, Amore e Dio sono la stessa cosa?”. Risponde ancora David: “Non so se l’Amore dimostri l’esistenza di Dio oppure se l’Amore sia Dio stesso”, so però che “questo pensiero è il solo conforto alla mia miseria e disperazione”. Forse davvero l’unica ricchezza, grazia e speranza che l’essere umano ha rispetto alla vita, prima di trovarsi di fronte alla morte.

Esattamente come in fondo accade anche ad Antonius Block (von Sydow), il cavaliere medievale che gioca a scacchi con la morte (Bengt Ekerot) in Il settimo sigillo (Det sjunde inseglet, 1957), per il quale interrogativi, tormenti e crociate trovano sollievo solo davanti alla famiglia di saltimbanchi, ossia a Mia (Bibi Andersson), Jof (Nils Pope) e al loro bambino, che dell’universale sentimento sono la raffigurazione più viva e più vera.

Del resto, se la suddetta trilogia costituisce il “cuore” o uno dei cuori pulsanti della filmografia bergmaniana, è anche perché i suoi “palpiti” si avvertono altrove, nel prima e nel dopo di quella “intera sua creazione” (Bini 1980: 10) artistica, al di là dello schema che il regista stesso suggerisce: “Questi tre film trattano di un’operazione di riduzione. Come in un specchio: certezza conquistata. Luci d’inverno: certezza rivelata. Il silenzio: il silenzio di Dio… l’impronta negativa. Perciò compongono una trilogia” (Bergman 2009: 210).

Ma appunto non solo quella, date le sue propaggini, derivazioni (pensiamo a La fontana della vergine/Jungfrukällan e a L’occhio del diavolo/Djävulens öga, entrambi del 1960) e concatenazioni. Per le quali ad esempio il secondo film del trittico, Luci d’inverno, avrebbe dovuto in prima istanza aprirsi laddove il primo si chiude. Nell’ultima inquadratura di Come in uno specchio, Minus, ancora in PP e leggermente di profilo, ci dice: “Papà mi ha parlato”. Al contrario, nella prima idea di soggetto di Luci d’inverno, è il pastore protestante, Tomas Ericsson (Björnstrand) che, una volta varcata la soglia della chiesa di campagna, in un giorno d’inverno, chiusa la porta alle spalle, attraversata la navata centrale, giunto ai piedi dell’altare, rivolgendosi al Cristo in croce, dichiara: “Resterò qua fino a quando non mi parlerai” (Trasatti 1995: 69). E in effetti poco importa se in fase di sceneggiatura e di ripresa la sequenza poi cambia, perché quel che rimane immutato è il bisogno di una parola da parte del padre e il rifiuto del silenzio di Dio che è qui causa della profonda crisi religiosa del protagonista. Di colui che presupponiamo dubbi sulla sua esistenza non dovrebbe averne.

Ma invece non è così. Molti sono i tormenti fisici e spirituali di Ericsson, per il quale Bergman si ispira chiaramente a Diario di un curato di campagna (Journal d’un curé de campagne, 1951) di Robert Bresson, che si autodefinisce un cattivo pastore, incapace di amare se stesso e il prossimo. Più che ascoltare e dialogare, egli in effetti monologa e parla di sé, mostrandosi tutt’altro che empatico a chi gli sta intorno, come a noi spettatori che lo osserviamo. Con durezza respinge l’amore incondizionato che gli porta Marta Lundberg (Ingrid Thulin), la maestra del villaggio, e di fatto fallisce nel tentativo di far desistere il pescatore Jonas Persson (von Sydow), ossessionato dalla minaccia nucleare cinese, dal proposito suicida. Chiuso in se stesso, rigido e raggelante (come lo stesso padre-pastore di Bergman è stato), sentimentalmente inaridito, Tomas sembra aver creduto solo in passato ad un “dio piccolo-borghese” (Bini 1980: 24) che, in quanto riparo e rifugio dalla realtà circostante, trovava conforto tra le braccia dell’amata-moglie da cinque anni ormai deceduta. Allora sì che le sue messe in chiesa erano affollate (diversamente da quanto accade sia nel prologo che nell’epilogo del film) e condivisa era l’equazione Dio-Amore che, con parole identiche a quelle dette da David a Minus nel finale di Come in uno specchio, anche Tomas (stesso attore, ma opposto personaggio) un tempo pronunciava con credo e fervore ai suoi fedeli parrocchiani.

Eppure, nonostante ciò, non tutto appare perduto e, contrariamente alle molte critiche di allora che per questo film liquidano l’autore come ateo, miscredente e materialista, nel finale uno spiraglio si apre. Magari è appena percettibile, eppure il volto di Ericsson per un attimo si distende, quando il sacrestano Algot Frövik (Allan Edwall) gli rievoca la parabola cristologica del Getsemani e della crocifissione come simbolica sofferenza, più spirituale che fisica, del figlio di Dio che, non solo è rinnegato dai suoi discepoli, ma sulla croce è assalito dallo stesso improvviso dubbio del pastore fin qui e come già lui, in una delle prime sequenze del film, pronuncia l’identica invocazione “Dio, perché mi hai abbandonato?”.

E ancora, non vi è forse una doppia speranza nel finale, sia nella supplica di Marta che, unica seduta tra i banchi della parrocchia, si chiede: “Se riuscissimo ad essere sicuri? Ad avere il coraggio di mostrare il nostro affetto? Se riuscissimo a credere?”, sia nella funzione comunque officiata da Tomas nella chiesa deserta? Una decisione per la quale il regista racconta di aver tratto ispirazione e insegnamento da un episodio autobiografico paterno, la cui lezione in sintesi è: “A prescindere da qualsiasi cosa, devi celebrare la tua messa” (Bergman 1987: 245). Compiere cioè il tuo dovere e pertanto non smettere mai di cercare Dio. Anche se risposte non ne odi e se inalterati restano i tuoi dubbi. Anche se la sofferenza fisica e morale non solleva dagli affanni e dagli incarichi né allevia il vuoto e l’angoscia esistenziale degli uomini e delle donne sulla terra.

Del resto alternative non sembrano essercene e il regista lo ribadisce suo malgrado anche nel film successivo, Il silenzio che, dopo Luci d’inverno, in quanto ultimo della trilogia, è un’ulteriore quand’anche “dolorosa presa di coscienza che un umanesimo senza Dio è impossibile” e che “mutilato” dei propri “valori spirituali” (Bini 1980: 41) l’uomo, o meglio la donna, dal momento che qui le protagoniste sono due sorelle, Anna (Gunnel Lindblom) e Ester (Thulin), e un bambino, Johan (Jörgen Lindström), figlio della prima e nipote della seconda, non fa che condannarsi alla solitudine. Autodistruttiva fino alla morte per Ester. Lussuriosa e narcisistica per Anna.

In continuità ed evoluzione tematico-stilistica con le due pellicole precedenti, qui Bergman persiste nell’unicità spazio-temporale che ancora una volta, lungo la scia del kammerspiel e del cinema da camera, circoscrive la durata della vicenda a qualche ora diurna e notturna, ma soprattutto delimita l’ambientazione, come già avviene per l’isola di Fårö di Come in uno specchio o per le due chiese gotiche della Svezia centrale di Luci d’inverno. E mentre in apertura del Silenzio ci ritroviamo all’interno di uno scompartimento ferroviario, dal quale le due donne e il bambino, in viaggio verso casa dopo una vacanza, scendono a causa di un improvviso malore di Ester, in seguito tutto si svolge all’interno di un albergo e di una località sconosciuta, luoghi della loro sosta forzata, nonché spazi simbolici di incomunicabilità, visionarietà e sofferenza. …

 

Continua a leggere l’articolo di Stefania Carpiceci su Filmcronache n.2/2018 (la registrazione è obbligatoria ma gratuita)

Scrivi un commento...

Sull'autore

Stefania Carpiceci