Contrasti, distanze, confini da ridisegnare, cesure storiche, equilibri da mantenere: a cominciare da quel titolo internazionale (The monk and the gun) interessato a qualificare l’accostamento dell’inaudito, C’era una volta in Bhutan insieme a Lunana – Il villaggio alla fine del mondo compone un ideale dittico che il regista Pawo Choyning Dorji ha dedicato alle contraddizioni del proprio paese, al centro di una delicata fase di cambiamento e transizione.

Se nel precedente questa complessità era rappresentata con leggerezza e lirismo dal continuo dialogo tra cielo e terra, tra ciò che stava in alto e ciò che stava in basso, in questo secondo lungometraggio la differenza tra dentro e fuori, tra Bhutan interno e Bhutan esterno, assume il ruolo di veicolo per rappresentare una transizione culturale lenta e difficile che, come si può intuire dalla vicenda raccontata, è tesa a fotografare l’identità di un popolo e la storia di una terra posta di fronte al contrasto tra i valori tradizionali, culturali e spirituali del Bhutan rurale, e l’inclinazione moderna, incentrata sull’occidente del Bhutan urbano in via di sviluppo. Natura e uomo al centro di una relazione che fa i conti con la Storia; memoria e tradizione al cospetto del tempo. Chi siamo e chi siamo chiamati ad essere?

Il “c’era una volta” del titolo immerge lo spettatore nel 2006, anno durante il quale la modernizzazione come un vento che soffia costante da tempo, sfonda i confini e consente al Bhutan di diventare l’ultimo paese al mondo in grado di connettersi a internet e alla televisione, spingendolo a compiere l’ultimo definitivo passo evolutivo dalla monarchia alla democrazia. Così, per insegnare alla gente a votare, le autorità organizzano una finta elezione, ma nei villaggi in cui le persone non conoscono la propria data di nascita, registrare gli elettori si rivela una vera e propria sfida. Inoltre, essendo assente ogni forma di conflitto politico, molti guardano con diffidenza l’avvento della democrazia.

Accanto a questo evento epocale, nel villaggio di Ura, un anziano Lama, turbato dai possibili esiti dello straordinario cambiamento che sta per travolgere il suo paese, ordina a un giovane monaco di procurarsi un paio di fucili; nel frattempo, un americano collezionista d’armi antiche, arriva in Bhutan con l’intenzione di offrire una grossa somma di denaro in cambio di un prezioso fucile del XIX secolo. Mentre il paese si interroga sulla necessità di un cambiamento non richiesto, ma a quanto pare inevitabile, la storia particolare di alcuni uomini riflette il sentimento diffuso di scetticismo e sfiducia nei confronti di un tempo che sembra voler guardare avanti dimenticandosi del proprio passato.

C'era una volta in Bhutan
C'era una volta in Bhutan

L’efficace apologo pacifista punta sull’accoglienza del dono della vita che in ogni circostanza ci è offerto (e la soggettiva del Lama che punta il fucile unita al seppellimento delle armi sono i due momenti vertice della sua espressività politica) e, con la luminosità che caratterizzava anche il precedente Lunana, fa da contrappunto all’interrogativo sulla felicità al tempo della globalizzazione: è possibile percepire un’idea di felicità diversa? Cosa significa essere felici oggi? Consumare, realizzare, possedere?

Nel paese considerato “più felice al mondo”, per i bhutanesi non una banale trovata di marketing ma un principio guida radicato nella cultura e spiritualità non a caso, quando nel 1729 il governo bhutanese redasse la sua prima Costituzione, la dichiarazione di apertura proclamava che “lo scopo di un governo è quello di fornire felicità al suo popolo, e se un governo non può fornire felicità, non ha motivo di esistere”.

La Felicità Nazionale Lorda è il principio guida delle attività di sviluppo e la visione a cui i bhutanesi aspirano come popolo e nazione: capacità di adattarsi alle mutevoli situazioni utilizzando saggezza e mezzi che hanno permesso ai Re di guidare il Paese attraverso situazioni che mettevano in pericolo la sovranità della nazione. La stessa saggezza e la stessa abilità che gentilmente hanno guidato ad accogliere la democrazia e con essa prosperare.

Un modo di guardare il mondo, quindi, a partire da uno sguardo sulla comunità. E in questo film si ricorda amabilmente che fare comunità significa sempre fare comunione, farsi carico della sofferenza altrui, condividere le fatiche, camminare insieme verso una nuova umanità. Spezzare il pane. Si suggerisce, quindi, un nuovo modo di intendere la felicità fondato non solo sulla propria percezione individualistica, ma aperto alla contemplazione di una felicità altra, vissuta anche dagli altri in cammino verso la stessa meta. Una beatitudine che, come scrive il salmista, è dell’uomo che passando per la valle del pianto la cambia in una sorgente.

Potete seguire ACEC anche su Facebook.

Scrivi un commento...

Sull'autore

Matteo Mazza