Tutto scorre come sempre in casa di Manuel Roca, medico di un paese ispanico appena uscito da una guerra imprecisata che vive con i suoi due figli in una fattoria isolata di una terra di frontiera. Tutto però è destinato a cambiare nel momento in cui quattro uomini armati imboccano la strada sterrata che conduce alla loro casa, in cerca vendetta. Roca tenta disperatamente di proteggere i propri figli, ma nulla può contro la ferocia degli aggressori. Molti anni dopo la figlia, ormai adulta e unica sopravvissuta della famiglia, incontra Tito, proprietario di un’edicola. Tra i due si accende un confronto carico di tensione, destinato a resuscitare desideri di vendetta e antichi rancori.
Fin dall’inizio della sua carriera di regista, Angelina Jolie ha messo quasi sempre — fanno eccezione il documentario d’esordio (A Place in Time, 2007) e Broken Sea (2015) — la guerra e le sue conseguenze al centro della propria enunciazione. Tema evidentemente decisivo nella formulazione del proprio discorso, tanto che non sorprende esso informi anche Senza sangue, sebbene qui lo scenario bellico risulti decisamente sfumato, sottoposto a un processo di astrazione che, al contrario delle opere precedenti, lo priva di ogni riferimento storico. Operazione che, lasciando volutamente la guerra nel fuoricampo, denota l’intenzione del testo di sottolineare l’universalità del tema.
Non meno importante è la scelta che, ancora una volta (la quarta sui sei lungometraggi diretti da Jolie), protagonista del racconto sia una donna, qui ritratta nel suo arco esistenziale attraverso i due decisivi momenti che lo definiscono, ovvero la “scena primaria” e l’inevitabile desiderio di ritornarvi. Due momenti distanti, separati nell’affabulazione da quasi mezzo secolo benché intimamente concatenati, che, esattamente come succede nell’omonimo romanzo di Alessandro Baricco (Rizzoli, 2002) di cui il film è la trasposizione, dividono Senza sangue in due parti. Divisione che permette di spostare la focalizzazione del discorso sull’infanzia e sui suoi indelebili traumi – come peraltro già avveniva nel precedente Per primo hanno ucciso mio padre (2017), con il quale il sesto lungometraggio diretto Jolie costituisce una sorta di dittico.
La guerra e i suoi dolorosi lasciti e l’infanzia interrotta sono dunque i due temi che s’incrociano in un’opera seducente e irrisolta, che Jolie (qui autrice anche dello script) decide di mettere in forma contrapponendo cinema e letteratura, il respiro cinematografico della prima parte con l’illustrativismo dialogico della seconda, il pattern del Revenge movie con l’ambientazione del Southern Gothic. Ovvero facendo proprie le atmosfere del secondo (nelle quali sembra echeggiare più Cormac McCarthy che Faulkner), ma calandole in una formula narrativa riconoscibile e identificabile. Da una parte per guardare alla frontiera come luogo insieme fisico e simbolico, sorta di territorio ancestrale nel quale i riti di passaggio appaiono più netti; dall’altra per dare allo spettatore una risoluzione drammatica tanto imprevedibile quanto sorprendente. Così da rendere i due protagonisti della vicenda, un ragazzo e una bambina le cui vite sono destinate ad annodarsi a causa di uno sguardo contemporaneamente salvifico e attraente, due individui interrotti le cui esistenze sono trascorse nella speranza e nel Desiderio di un nuovo rendez-vous. Di un nuovo, risolutivo incontro in grado di dar senso al gesto che le ha irrimediabilmente segnate. Incontro che, quando finalmente giunge, diventa un deflagrante confronto sulla Verità e insieme riflessione sull’impossibilità di sfuggire ai fantasmi dell’infanzia.
Titolo originale: Without Blood
Regia: Angelina Jolie
con Salma Hayek Pinault (Nina), Demián Bichir (Tito), Juan Minujín, Andrés Delgado
USA/Italia, 2024
Durata: 85’
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