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ROSE OF NEVADA, la recensione
Gli Orizzonti di Venezia 82

Rose of Nevada

Emerge, in concorso nella sezione Orizzonti a Venezia 2025, la pellicola (in questo caso in senso letterale) Rose of Nevada, lavoro sperimentale del filmmaker inglese Mark Jenkin, noto per un cinema autoriale e atipico. Girato in pellicola, con una camera 16mm, la Bolex H16, con scelte cromatiche calde che richiamano ad un tempo passato, l’audio è stato ricostruito in un secondo momento, con un grande lavoro artigianale del regista. 

Assistiamo alle storie di alcune famiglie di pescatori, in un piccolo villaggio della nativa Cornovaglia.

I personaggi vivono un quotidiano di periferia, senza speranze, arresi alla loro piatta esistenza, tra le vie semivuote e le case in decadenza, abitate da anziani dall’aspetto orrorifico. Due giovani, Liam (Callum Turner) e Nick (George MacKay), accettano di lavorare su un peschereccio, il Rose of Nevada, ricomparso misteriosamente dopo trent’anni. Questo avvenimento straordinario, e inspiegabile, è visto dalla comunità come un segno del destino e di salvezza, si rivelerà un varco verso un tempo circolare. Per i due giovani è l’occasione di fare qualche soldo per mantenere le loro famiglie. Al rientro dalla prima, abbondante, pesca, qualcosa non va, gli abitanti del villaggio li accolgono come se fossero l’equipaggio originale di decenni prima. Il villaggio è rinato, i due giovani sono stati sacrificati ad un glorioso tempo passato, guidati da un misterioso skipper che sembra uscito da antichi racconti di marineria.

Il film ha il pregio di mostrare una storia realizzata con una evidente artigianalità, che non scade mai nell’amatoriale. Nel montaggio visivo e sonoro si sente l’uso di una unica cinepresa e dell’audio ricreato in studio, dando al film il peso autoriale che merita. Nel suo ascriversi nel genere horror possiamo individuare la non compiutezza del film, che, in questo, si perde nel meccanismo creato senza svilupparlo e senza risolverlo. L’idea di un tempo circolare non trova soluzioni. La nuova vita in mare dei due giovani è la metafora del sacrificio che gli individui devono fare per sostenere la comunità in cui vivono, accantonando sé stessi per la buona riuscita della vita collettiva.

L’idea del film è nata durante la pandemia, quando Jenkin ha visto la forza silenziosa della sua piccola comunità cornica, in cui la gente si è unita, donandosi agli altri per proteggere i più vulnerabili, mentre le autorità si dimostravano deboli e confuse.

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Sull'autore

Simone Agnetti

Simone E. Agnetti, Brescia 1979, è Laureato con una tesi sul Cinema di Famiglia all’Università Cattolica di Brescia, è animatore culturale e organizzatore di eventi, collabora con ANCCI e ACEC, promuove iniziative artistiche, storiche, culturali e cinematografiche.

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