Lasciandoci alle spalle la Giornata dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, commemorata nella data della Dichiarazione dei diritti del fanciullo approvata nel 1959 e nel bel mezzo dell’avventura dell’Avvento, in cui un po’ tutti ricordiamo che un Dio si fa bambino, è bello riguardare e affiancare due titoli apparentemente distanti come Petites – La vita che vorrei per te di Julie Lerat-Gersant e The Old Oak di Ken Loach. Forti di narrazioni semplici e tematiche forti, entrambi i titoli hanno la capacità di raggiungere il pubblico mettendo in scena personaggi popolari, dotati di un’autenticità generosa, una vivacità drammatica e una carica umana di cui, forse, ciascuno sente di avere sempre bisogno per mantenersi esposto alle tante chiamate della vita e per lasciarsi nutrire da quell’intelligenza del cuore che, parafrasando Alda Merini, farebbe delle mani due bianche colombe che portino la pace ovunque e l’ordine delle cose.

Da una parte, il film di Lerat-Gersant è più esplicito nel raccontare un’evidenza come tende a sottolineare il titolo della distribuzione italiana che perde la fine duplicità del senso originale: è piccola sia la creatura che sta per venire alla luce, sia la madre Camille, sedicenne, che la tiene in grembo. Mandata dal giudice minorile in un centro di accoglienza per giovani gestanti, separata dalla madre, amorevole ma tossica, Camille stringe amicizia con Alison, un’altra giovane ragazza immatura che vive con la piccola figlia Diana nella casa famiglia, e subisce a malavoglia l’autorità di Nadine, un’educatrice appassionata e disillusa. C’è una freschezza che abbraccia la vitalità di Camille, turbata dalla sua condizione di giovane donna in bilico tra l’incredulità e la responsabilità di diventare madre: pattina sui roller, indossa minishorts e crop tops, mangia caramelle, si domanda quale futuro toccherà a sua figlia. E la macchina da presa stringe le parti di un discorso intriso di realismo e lirismo dove le immagini sono tutte dedicate al suo corpo in trasformazione, al suo sguardo in ricerca, al suo cuore che batte per la vita e non per la morte, inconsapevole ma forte dell’idea che c’è un inizio, una nuova nascita, una perenne crescita. Soprattutto c’è un mondo, cioè una comunità, che può accogliere questa autentica benedizione.

Dall’altra parte, sulla scia dei suoi titoli più spiccatamente “angelici” (e non sono pochi), Ken Loach ricorda al mondo intero che il suo cinema solidale e altruista è più vivo che mai, forse, proprio perché proiettato in un altrove in cui la comunità (ideale? reale?) è salda e riunita intorno a principi inderogabili che pongono al centro di tutto l’umanità. Da tutelare, proteggere, coltivare e, soprattutto, fare rinascere. Un monito per il futuro che non smette di lasciarsi interpellare dal passato. The Old Oak è il nome dell’ultimo pub rimasto aperto a Murton, dove un tempo si estraeva il carbone e ora non c’è più speranza e non c’è più lavoro. Qui nasce una bella amicizia fra Yara, giovane fotografa siriana, e T.J. Ballantyne, padrone del pub: “Mangiare insieme è stare insieme” questo è lo slogan.

E se il film sembra ricordarci che l’umanità appare stanca e invecchiata male a causa delle continue guerre, della violenza dilagante e di un consumismo accecante, tanti piccoli gesti ci spingono a credere alle alternative per generare un mondo migliore. Illuminato da una luce che ci ricorda, come duemila anni fa, che senza l’altro sarebbe un inferno e che per questo, il dono di quel bambino è carne, opportunità di bene e soggetto, mai oggetto.

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Sull'autore

Matteo Mazza