C’è una casa con tutta la sua struttura al centro dell’indagine di Anatomia di una caduta. È uno chalet di montagna sognato a lungo e infine realizzato dai due protagonisti del film. Lui lo vediamo poco, è come un fantasma. Perché Samuel è un marito che si è lasciato assorbire da quelle pareti. Sta in una stanza accanto, che non vediamo, quando la moglie, la presentissima Sandra, è intervistata da una studentessa. Forse geloso, forse solamente in preda ad emozioni incontrollabili, l’uomo alza il volume della musica fino a rendere impossibile la conversazione delle due donne. Precipiterà dall’alto dell’edificio qualche ora dopo. Il figlio ipovedente lo ritroverà, cadavere, nel bianco della neve. Prima indiziata per il possibile omicidio è, ovviamente, la moglie Sandra che sostiene di non essersi accorta di nulla.

Anatomia di una caduta prosegue da qui in poi come una ricerca della verità nel processo. Per la regista Justine Triet il punto da sviscerare è invece un altro tipo di verità: non importa tanto se si sia trattato di un incidente, un omicidio o un suicidio. Quello che conta è semmai accedere alle vere emozioni che hanno accompagnato la coppia fino a quel momento. Aprire insomma una stanza segreta.

Scopriamo gradualmente che Sandra e Samuel si sono rifugiati nelle Alpi francesi per coronare le proprie ambizioni artistiche – lei è una scrittrice di discreto successo, lui vorrebbe diventarlo – ma anche per fuggire da un passato segnato dai sensi di colpa. Questo paesaggio bucolico si rivela presto per quello che è: un luogo di solitudini esistenziali. Perfetta, bellissima, asettica, la casa è specchio del rapporto della coppia. Tutta facciata, con arredamenti interni ancora non finiti. Piena di scale pericolosissime, di tavoli dagli angoli sporgenti che rischiano di essere colpiti quando si va di fretta. Persino per il figlio Daniel le indicazioni poste sulle pareti nella forma di un nastro adesivo con il braille possono risultare fallaci. È così anche una relazione matura che deve convivere con la depressione: è elegante, alto borghese, ma da un momento all’altro può fare male.

Nel disorientamento generale del marito, della moglie, e del pubblico del processo, la bussola per orientarsi diventano le emozioni, molto più che i fatti. Sono loro ad essere messe sotto processo. Ci sono tantissime videocamere a scavare nel rapporto di coppia. Forse perché nel nostro mondo anaffettivo lo spettatore vuole nutrirsi come un vampiro dei sentimenti altrui, ritrovandosi come giudice e giuria (popolare). Per i media Sandra da soggetto diventa un oggetto di sguardo. Madame Coly in Saint Omer doveva controllare ogni espressione. Sandra deve stare attenta alle parole scelte, pronunciate in una lingua non sua, e sperare che il dettaglio dei sentimenti che ogni vocabolo porta con sé non venga “perso nella traduzione”.

L’anatomia al centro del film non è tanto della caduta dall’alto verso il basso che è stata letale per il marito, bensì quella del rapporto di coppia che scivola dall’amore alla tolleranza, fino a schiantarsi nell’estraneità reciproca, nella gelosia di chi non si sente riconosciuto, nella consapevolezza che la coppia, da sola, non si basta. È tutta colpa della casa, in fondo. Un luogo ordinato per compensare il disordine dell’anima. Uno spazio in cui vivere una vacanza perenne ma che, nella quotidianità, diventa invece, per via della sua distanza da tutto e da tutti, un impedimento a ciò che davvero può salvarci dallo schianto: le amicizie.

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Sull'autore

Gabriele Lingiardi