Hai delle competenze. Vieni demansionato. Non lo accetti. Vieni spostato come punizione in un misterioso e blindato ambiente aziendale dedicato al “dolce far niente” assieme ad altri ribelli. Mentre gli altri colleghi ti odiano perché guadagni senza lavorare, la tua persona confinata vivrà invece un lento ma progressivo logoramento psichico. Benvenuti alla Palazzina Laf, un’esperienza traumatica e diabolica realmente esistita nell’ormai secolo scorso all’Ilva di Taranto, opera scritta e diretta come esordio da Michele Riondino, da decenni già impegnato nel tenere vivo l’attivismo attorno alla sua città di origine.
Oltre a posizionare nuovamente e soprattutto finalmente i riflettori del cinema italiano sul tema del lavoro, in una regione dove peraltro si è pagato carissimo il costo dell’industrializzazione – la canzone “La mia terra” di Diodato, anche lui tarantino, ne è uno struggente richiamo –, Riondino con Maurizio Braucci (co-sceneggiatore) ci obbligano a riflettere sui processi che indeboliscono una collettività, frammentandola, mascherandola, togliendone una parte alla vista dell’altra, creando voragini relazionali, attivando fragilità emotive e atteggiamenti maniacali. Palazzina Laf, in termini tecnici bossing, rappresenta infatti una molestia psicologica messa in campo da un collega di ordine superiore al proprio e utilizzata in modo strategico dall’azienda. Questo ultimo aspetto, perfettamente messo in scena da Elio Germano e Paolo Pierobon (Basile e Moretti), oltre a renderla ancor più grave e ovviamente altrettanto perseguibile, svela il volto depauperato della fabbrica, rivela il fuori campo privo di morale sottratto allo sguardo degli altri operai. Scegliendo il registro della maschera per i suoi personaggi, porta se stesso nella duplice veste di sguardo (la regia) e di scena (il personaggio di Caterino Lamanna scelto per sé) per portarci tutti nella punizione, a ridare dignità a coloro che hanno vissuto il confine nei Laminati a freddo. E’ un portare allo sguardo coloro che erano stati tolti alla vista degli altri e che a loro volta avevano, invece, posato su di loro il proprio giudizio. E’ un gesto morale altissimo anticipato nel funerale dell’incipit che alterna lo sguardo tra la bara di un collega e i mosaici della chiesa dedicati a Cristo in croce e agli operai. L’autenticità debordante, vivificante quanto rabbiosa, che emerge da questo esordio in terra natìa, si coglie proprio nel profilo scelto per colui che ci introduce nel luogo del massacro: Lamanna non è lì per liberare nessuno. E’ lì per farsi i fatti suoi (riferire senza arte né parte e avere qualcosa in cambio). E di fronte a chi prega, a chi gioca, a chi cucina, a chi medita vendetta pur di arrivare alla fine delle otto ore, non ha nessuna cassetta degli attrezzi per trovarsi un posto in quello che gli altri da fuori immaginano il Paradiso. Lo sguardo di Lamanna, ripulito da ogni traccia di etica, è l’atto d’amore più grande, per contrasto però e quindi tutt’altro che stucchevole, che Riondino potesse scegliere per raccontare quanto la sua terra abbia bisogno d’amore.