Con la coesa accoglienza di Sentimental Value di Jaochim Trier a Cannes 78° possiamo dire che il cinema norvegese continua a regalare momenti di grande appagamento. A questo proposito vorrei ritornare su ben quattro film della medesima nazionalità che forse sono passati un po’ sotto traccia in queste settimane ma che meritano, invece, l’attenzione sfidante degli animatori culturali delle SdC anche con eventuali recuperi nella prossima stagione. Mi riferisco a La solitudine dei non amati della regista e sceneggiatrice Lilja Ingolfsdottir (titolo originale Loveable) e la trilogia indipendente di Sex – Dreams – Love girata in meno di un anno ad Oslo dal regista e sceneggiatore Dag Johan Haugerud. Dreams è stato premiato con l’Orso d’Oro all’ultima edizione del Festival di Berlino.
Si tratta di quattro opere che anche nel nostro stivale hanno saputo portare un’aria frizzante, pulita, energizzante che ha reso più intrigante questa primavera sul grande schermo. E si fa presto a dire film piccoli, in realtà lo sono soltanto all’apparenza perché capaci di disvelare un panorama di riflessioni davvero universali. Aggiungerei personalmente, sono tentata di espormi con un’ammissione più intensa, si tratta forse delle opere che più mi hanno interpellato “come adulta” in questi ultimi anni. Capiamoci, non che ci siano film adatti ad un’età piuttosto che ad un’altra, però sicuramente ci sono film che più di altri chiedono di fare i conti con la saldezza delle proprie credenze e del proprio background culturale e si sa che da adulti, ormai sclerotizzati su alcune posizioni, queste comparazioni risultano molto nitide.
La parola al centro del nuovo cinema norvegese
Anche grazie al ruolo riservato alla parola, quasi terapeutico, in ciascuna di queste opere, i due cineasti scandinavi portano alla fin fine anche con noi stessi ad intessere dei dialoghi intimi con la nostra storia, i nostri desideri, le nostre esperienze. A volte è chiaro fin dall’inizio che andrà così come nel caso di La solitudine dei non amati che inizia proprio nell’impasto tra il codice sonoro di una domanda-proposta fuoricampo – «Vuole dirmi come vi siete incontrati» – e il codice visivo di una protagonista allo specchio dopo la doccia. Seppur convinti di essere dalla parte giusta della storia, accettando quello specchio e quella domanda iniziamo un viaggio che ci vedrà tutti su un simbolico lettino disposti a fare di noi una mappa con tanti “alt-pericolo”.
Loveable è un film che illumina gli spazi intimi di una donna moderna come luoghi di verità, di letterale messa in scena dei nostri traumi infantili e della loro decostruzione per guarire i nostri funzionamenti e le nostre relazioni, per imparare a volerci bene e poterci aprire davvero ad una relazione matura e generativa (non solo biologicamente).
C’è molta introspezione anche nella trilogia segnata sempre da un dialogo che porta fuori di sé, che attesta in tutte e tre le storie l’irriducibile esperienza dell’alterità per la conoscenza di se stessi. Ne esce un trittico stupefacente, mai sopra le righe, seppur scandalosamente privato, mai narcisistico seppur fortemente in ascolto dei personaggi, mai omiletico seppur marcatamente verboso, sempre orientato alla costruzione della comunità che non può prescindere dall’intimità. Si avete letto bene, non può prescindere. «Il personale è politico», per dirla con lo slogan di Carol Hanisch, con la grande differenza che qui siamo in Norvegia e questo approccio vale indistintamente e soprattutto realmente, nella trilogia, per uomini e donne.
Questione di identità
Esonda in tutta la trilogia l’irrimediabilità della vitalità delle identità. Se da una parte sono orientate inevitabilmente da modelli ricevuti in famiglia e dalla società ad una standardizzazione, dall’altra sono sempre aperte a nuove costruzioni di sé in ogni epoca della vita. Tradotto, siamo vivi! Questi movimenti tellurici possono arrivare agendo l’autobiografia, proprio con la scrittura, delle vicende del primo amore che come un terremoto improvviso interpella tre generazioni (la studentessa Johanne di Dreams), nelle confidenze tra colleghi, due maschi eterosessuali, sulla destabilizzazione che il desiderio e il sogno procurano alle loro vite e in primis alle loro relazioni affettive (gli spazzacamini, il letterale movimento trascendente disostruente di Sex), rincasando insieme nel traghetto che va e viene da Oslo e raccontandosi le aspettative e le dinamiche delle loro relazioni affettive e sessuali (la dottoressa Marianne e l’infermiere Tor che lavorano nello stesso reparto di urologia anche oncologica di Love). La libertà è un orizzonte mai negato nel dialogo, nella corporeità, nel sentimento di queste storie indipendenti e al contempo interconnesse e viene indagata in modo proprio sfidante senza paura di perdere o di perdersi.
È quasi più semplice dire a chi non garberanno questi film e quindi antenne alzate in fase di presentazione e di commento per riuscire a parlare a tutti:
- A quelle persone che non hanno riconosciuto, elaborato e fatto pace con la propria omofobia. In tutte le opere coesistono pacificamente legami etero e omosessuali, questo aspetto viene dato proprio per risolto a riprova che mettere al bando la discriminazione degli omossessuali ancora nel’81 – la Norvegia fu il primo paese a farlo – ha portato nel tempo i suoi frutti. Cosa si prova di fronte ad un tal paesaggio?
- A quelle persone che hanno timore dell’ascolto del sentire altrui e che ritengono che ci si possa “corrompere” nel mettersi accanto anche soltanto nel raccontarsi approcci e funzionamenti diversi. In forza di questo dare parola senza vergogna agli avvenimenti e al cambiamento, di questo portarlo al di fuori di sé nel dialogo e quindi farlo esistere, dargli letteralmente una casa comune, sicuramente alcuni spettatori potrebbero sobbalzare sulla poltrona e sentirsi in pericolo. Cosa si perdono!?
- A quelle persone che vivono la sessualità, e quindi anche la corporeità più basica, ancora come un tabù ustionante. Qui, allora, avranno le vertigini ma non saranno gli occhi a procurargliele. In tal senso è emblematico che si possa intitolare un’opera Sex e non trovarci in realtà nemmeno una scena di sesso. Eppure se ne parla molto perché dal sesso ci si sposta verso la sessualità per indagare identità e condizionamenti, spiritualità e scelte, libertà e segreto, amore e piacere, verità e riconciliazione.
- A quelle persone che l’ecumenismo va bene nella preghiera dei fedeli ma non chiedetegli di più. Qui vanno in scena i cugini cristiani protestanti, una maggioranza altissima nella popolazione norvegese e si tratta di una sensibilità inevitabilmente coinvolta nella narrazione e in alcuni passaggi citata direttamente con riferimenti proprio alla Bibbia e alla fede. Va aggiunto, in tal senso, che l’anno scorso al Festival di Berlino Sex ha ricevuto proprio il Premio della Giuria Ecumenica, a riprova di questa sua spiccata propensione a inglobare anche la sfera religiosa dentro a riflessioni sull’identità, il desiderio e la libertà.
- A quelle persone che vivono e si nutrono di stereotipi di genere, più spesso inconsapevolmente, e che si impegnano con fervore anche a trasmetterli alle generazioni a venire. Nella trilogia ci sono alcune scene che a queste persone, con buona probabilità, procureranno allora una dermatite fulminante già in sala. Un animatore culturale, come una crema che ripara la barriera cutanea, saprà invece valorizzarle al meglio nella loro capacità di dipingere un futuro più equo e rispettoso per tutti e soprattutto tutte.
P.S. doveroso: tanta gratitudine per la distribuzione Wanted per aver messo a disposizione queste opere così lontane, così vicine.