La missione di Saint Omer è di quelle impossibili sulla carta: farci amare chi abbiamo già condannato. C’è una donna accusata del peggiore crimine possibile: ha ucciso sua figlia buttandola in mare. Va emessa una sentenza di condanna (lei è rea confessa). Un compito apparentemente semplice. Il massimo della pena assegnato con sdegno e orrore sarebbe incontestabile e moralmente giusto. Eppure Alice Diop, qui alla sua prima opera di finzione dopo gli inizi nel genere documentario, non mette nel banco dei giurati la razionalità, bensì l’anima. E questo cambia tutto.

L’imputata Laurence Coly viene inquadrata con insistenza mentre le altre persone le parlano fuori campo. È un piano medio che dà una distanza, contemporaneamente è uno sguardo soggettivo che scruta sul suo volto un segno, un perché. Ed è proprio a partire da questo interrogativo che si articola tutto il processo. La giuria si chiede quali cause abbiano portato a una tragedia simile, e se lo chiede anche la donna. 

Osservata da Rama, una docente che sta scrivendo un libro sulle moderne Medea, instaura con lei un dialogo cinematografico che si compie nella distanza, senza parole e con un solo incrocio di sguardi. Lo svelarsi della storia personale che ha portato al delitto cambia nel profondo l’ascoltatrice. Si ritrova in un turbinio emotivo; un legame simbiotico che accomuna chiunque abbia sperimentato la solitudine femminile, l’abbandono dello straniero, lo smarrimento culturale. “Saint Omer” procede con una messa in scena semplice, ma rigorosa, nella direzione opposta dei classici film procedurali. Nelle storie di tribunale più ci si avvicina alla fine del processo, più la verità viene svelata. Alice Diop, come dicevamo, lavora su un livello spirituale ed empatico. Così ad ogni risposta moltiplica le domande. Sposta lentamente il piano della riflessione. Crediamo che il gioco cinematografico sia giudicare una donna infanticida. Alla fine ci troviamo noi osservati, noi interrogati nella nostra incrollabile morale, a chiederci se questa -privata dell’empatia e dell’ascolto – sia il corretto metro di giudizio.

È straordinario che il film scelga di assomigliare a quei tanti processi che si vedono riprodotti in televisione. Lo fa però con la splendida fotografia di Claire Mathon e con una scrittura eccezionale. Attinge però evidentemente da questo immaginario ben radicato e ne rovina il gioco. Le sentenze spettacolarizzate nei media, non sono informazione, sono un gioco allo scandalo. È un’indignazione funzionale, che fa sentire bene, superiori, innocenti. Ci piace pensare che noi, al posto di chi compie atti criminali, non l’avremmo mai fatto.

Invece il cinema si rivela ancora una volta uno specchio che svela l’ipocrisia (l’ha ben raccontato anche Jafar Panahi ne Gli orsi non esistono). Saint Omer riesce infatti con la sua sceneggiatura a bloccare ogni (pre)giudizio. Dalla metà in poi diventa un’operazione di ascolto. Non di una persona, bensì di una comunità di donne che ritorna a condividere le ferite, anche di una sola di loro. Il delitto del singolo diventa un dolore collettivo, una responsabilità di tutti. Questa non è solo la migliore idea di civiltà possibile, è anche la migliore umanità a cui siamo chiamati. Da spettatori, ritrovarsi incapaci di emettere una sentenza netta di fronte al male assoluto, è un dono cinematografico unico. Forse siamo ancora capaci di quell’amore evangelico, illogico secondo il funzionamento del mondo, che non giudica ma si sente responsabile dell’altro. Anche quando è distante. Proprio perché è distante.

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Sull'autore

Gabriele Lingiardi