Il mercato della prostituzione è un tema delicato e doloroso al tempo stesso. Con Joy la regista Subdabeth Mortezai sceglie un approccio cinematografico non convenzionale e assai autentico, concentrandosi su alcuni frammenti di vita di una donna nigeriana caduta nello spietato mercato del sesso.
Joy vive a Vienna, condividendo l’abitazione con altre giovani prostitute. Tutte queste donne sono consapevoli del destino che hanno scelto: sapevano che avrebbero dovuto svendere il proprio corpo per sostenere economicamente la famiglia a distanza.
A Joy viene chiesto dalla Madame di badare alla giovanissima Precious, appena arrivata dalla Nigeria e il cui nome, così come quello di Joy, sembra un contrappasso della sua stessa esistenza.Precious non riesce ad accettare questo lavoro così “pesante“. “Come fate con tutti quegli uomini?” chiede a Joy. “Basta non guardarli negli occhi”, risponde la donna. “L’obiettivo è pagare il debito”.
Per tutto il film questi uomini non si vedono, non c’è scena di rapporto sessuale. La condizione di dipendenza emerge prepotentemente da altre dinamiche: il legame di sottomissione con la Madame, il rito animista juju che non si può tradire, la stessa abitudine a questo “lavoro” che, paradossalmente, concede di trasformarsi con estrema facilità da vittime a carnefici: di fatto,una volta estinto il debito, il passo per diventare Madame è estremamente corto.
Il primo lungometraggio di Mortezai,, dallo stile quasi documentaristico privo di ogni retorica, presenta un sistema perverso che mette le donne una contro l’altra, chiedendo di non chiudere gli occhi su questa dolorosa e diffusa realtà. Se per Joy si palesa più volte la possibilità di spezzare la catena, l’assenza di garanzie e di tutele sociali per un’eventuale denuncia sembra infatti eliminare ogni speranza di liberazione.