Dalla Parigi di fine Ottocento agli anni della Grande Guerra, l’ascesa e il declino di Sarah Bernhardt, attrice e icona della modernità, tra successi teatrali, amori liberi e una progressiva consapevolezza della propria fragilità. Artista osannata e madre tormentata, la “divina” attraversa quarant’anni di storia e di arte, specchio di un’epoca in cui il mito dell’attore si confondeva con quello della celebrità.
Il diciannovesimo titolo di finzione dello scrittore/regista Guillaume Nicloux è un biopic sontuoso nella ricostruzione, sfarzoso nei costumi e nelle scenografie, ma povero di cinema, un melodramma travestito da affresco storico che si muove con l’incedere prevedibile di un tedioso feuilleton televisivo. Dopo il sorprendente rigore claustrofobico di La Tour (2022) e le solide architetture narrative de La petite (2023) , questo nuovo lavoro rappresenta dunque un deciso passo indietro dell’autore di Melun, che qui cade nelle pastoie del cinema illustrativo, dove la complessità della figura di Sarah Bernhardt è ridotta a superficie calligrafica.
Sandrine Kiberlain attraversa quarant’anni di storia con encomiabile dedizione, benché la sua prova, per quanto generosa, non esce mai fuori dell’ordinario, non trova mai il momento per restituire la prismaticità dell’artista. Un’interpretazione più “rappresentata” che realmente incarnata, che restituisce una Bernhardt esuberante ma non incendiaria, intrappolata in uno script che la vuole soprattutto simbolo, icona educata del femminismo, più che donna di carne e contraddizione. Di quella Sarah capace di scandalizzare Parigi con la sua libertà di costumi e la sua ferocia teatrale, resta qui soltanto l’ombra, una figura addomesticata dal decoro borghese.
Da parte sua Nicloux sembra oscillare fra l’ambizione di un ritratto d’artista e la tentazione del romanzo d’appendice. Il suo sguardo rimane esterno, contemplativo, incapace di organizzarsi in linguaggio. La fotografia levigata di Christophe Offenstein, le scenografie ordinate, la musica che accompagna docilmente ogni passaggio emotivo concorrono a costruire un film pulito, ma senza alcuna urgenza. Gli incontri con Zola, Freud, Mucha, Victor Hugo o Edmond Rostand, invece di aprire squarci di senso, appaiono strumentali, e i frequentatori di casa Bernhardt ridotti a erudite comparse di un racconto che non osa mai davvero interrogarsi sul tessuto storico-sociale-artistico che mette in scena.
Rispetto alla Duse di Pietro Marcello – con cui La divina di Francia dialoga, condividendone il medesimo orizzonte storico, la dimensione crepuscolare e l’analogo interesse per la diva come figura liminale fra sacro e spettacolo – La divina di Francia manca di prospettiva, rimanendo schiacciato sul contesto che rappresenta senza mai riuscire ad elevarsi. Laddove Marcello costruisce una riflessione politica e linguistica sulla rappresentazione, Nicloux infatti si limita a illustrarla, prigioniero di una deriva estetizzante che diventa spesso stucchevole. Ne risulta un film elegante ma inerte, un esercizio di stile che scambia la compostezza per profondità, e la calligrafia per sentimento.
SCHEDA TECNICA
Regia: Guillaume Nicloux
Con: Sandrine Kiberlain, Laurent Lafitte, Edouard Baer, Benjamin Lavernhe, Grégory Gadebois
Francia, 2024
Durata: 110 minuti
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