Laddove nacquero le Idee, l’Anima fu inventata e l’abolizione della proprietà privata teorizzata, vuole ossessivamente recarsi il neo maturato Antonio, idealista compulsivo che porta nella tasca dei jeans la foto del Che, da lui considerato “il novello Platone”. Era l’estate del 1969, Jimi Hendrix moriva ma la convinzione di un cambiamento socio-politico radicale era viva e vibrante. Nutrito dal Grande Sogno, il ragazzo parte con la 500 della madre verso quella Grecia madre di tutto il pensiero, ma all’epoca soffocata dalla “dittatura dei Colonnelli”. Vi trova individui bizzarri ma ontologicamente saggi e soprattutto l’amore di Maria, una bellissima e misteriosa ateniese.
L’operetta morale del già documentarista e romanziere Claudio Rossi Massimi, che attinge proprio dal suo omonimo libro la materia per il film d’esordio, nasce sotto le migliori intenzioni ma purtroppo da esse viene inesorabilmente travolta. Lo scopo del suo esistere è talmente esplicito – enunciare la nostalgia di una generazione fallimentare che non ha saputo tradurre in realtà un’ideologia possibile – da diventare parte stessa della narrazione “over” del film, incarnata dalla voce armoniosa di Remo Girone. È a lui affidato il racconto delle “gesta” di Antonio, suo coetaneo e sintomo della generazione di cui sopra. La “sindrome” è il giudizio contemporaneo a indicare la passione purtroppo mal condotta verso il raggiungimento di uno scopo. Chiaramente inserito nell’incrocio classico fra Bildungsoroman e road movie, La sindrome di Antonio presenta un elenco di luoghi comuni a tematizzare la sua ambientazione da creare un sincero imbarazzo. È un vero peccato che un piccolo film indipendente, peraltro nelle mani di un regista/scrittore evidentemente colto sulla materia narrata, abbia sprecato in tal mondo un’occasione importante, giacché rispolverare la memoria dell’antica saggezza può giovare certamente a tutti.