«Il bambino impara perché crede agli adulti»

(L. Wittgenstein)

 

Le fiabe non raccontano favole, lo sappiamo. La fantasia che le alimenta altro non è che una chiave interpretativa della realtà, la lente di ingrandimento che consegna la verità su di noi e sul mondo. Il discorso vale per la letteratura ma anche per il cinema, ovviamente, soprattutto se questo implica confrontarsi con un film di M. Night Shyamalan e, in particolare, con il suo ultimo Bussano alla porta adattamento cinematografico del romanzo del 2018 La casa alla fine del mondo scritto da Paul G. Tremblay. L’inizio del film mette in scena tutti gli elementi del discorso: per gioco, una bambina imprigiona in una bottiglia alcuni grilli fino a quando dal bosco esce un uomo alto e grosso che ha un messaggio da consegnarle. È quindi subito un rapporto di grandezza e di forza a regolare l’ordine delle cose, un momento che porta a domandarsi cosa sia vero e cosa no, chi e cosa temere, chi e cosa accogliere.

Leonard, così si chiama l’uomo arrivato dal bosco come un orco è ingombrante, dallo sguardo ambiguo. La sua figura si fa segno di una apparenza ingannevole, una visione distorta della realtà condizionata dall’eccesso di paura, risentimento e pregiudizio ma, come fosse un angelo, portatrice di novità. La sua testimonianza, la sua parola, è come se ribadisse un assunto basilare della vita di ciascuno: se tutto nella nostra vita dovesse continuamente venire sottoposto a dubbio sistematico, a verifica, a discussione, la vita si muterebbe in un inferno. Per questa ragione l’orco Leonard subito entra in contatto con la bambina Sabrina, personaggio decisivo per accogliere il senso di un film interamente dedicato al rapporto fiducia/diffidenza: Sabrina è segno di una fiducia ricevuta e da dare, sia nella sua inermità che le ricorda di essere potenzialmente in balia di chiunque, sia nella sua condizione di protetta, ricevendo l’amore dei genitori che la proteggono, la accudiscono, le infondono appunto fiducia. Leonard e Sabrina, due figure, due segni che orientano l’intreccio, che ricordano allo spettatore quanto la fiducia sia matrice della vita e come il suo tradimento comprometta seriamente le basi dell’esistenza segnando con ferite profonde la capacità della persona di amare e di avere relazioni.

In Bussano alla porta ad assumere connotati ambigui è anche la presenza di una casa e il significato dell’esperienza di domandare. Anzitutto è singolare riflettere sul vocabolario biblico della fiducia in Dio, rappresentato da espressioni come “abitare con”, “dimorare all’ombra di”, “rifugiarsi in”, “trovare riparo in”, e analogamente vedere una corrispondenza a livello delle relazioni intraumane che regolano il film. In seconda battuta, rileggendo Lc 11, 9 (“Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto”) ci accorgiamo che il coraggio di domandare nasce dalla fiducia ed esprime fiducia. Ora, aldilà delle derive apocalittiche/fantascientifiche del film e andando oltre la sua vocazione hitchcokiana, consapevole di essere l’affabulatore di un dramma contemporaneo (non che sia una novità nel suo cinema, basti ricordare The Village o E venne il giorno) Shyamalan si fa interprete di un sentimento diffuso di inadeguatezza nei confronti delle recondite paure e dei meccanismi di sopravvivenza. E allora, tra le tante domande che sorgono durante la visione, una in particolare che sembra racchiuderle tutte rimbomba incessantemente: ma tutti quei libri inquadrati con insistenza, migliaia di anni di storia e studi rilegati in quintali di pagine, a cosa sono serviti? Bussano alla porta mette in scena lo scandalo della fiducia, la singolarità dell’inatteso. L’imprevedibile si manifesta come qualcosa di misterioso e spaventoso che ci interpella sovvertendo le regole del nostro sistema di riferimento.
La salvezza è una questione di sguardo nuovo.
Nella fiducia, io posso affidarmi radicalmente e confidare le mie debolezze.
Nella fiducia io posso consegnarmi.

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Sull'autore

Matteo Mazza