Le mie donne sanno disfare
questo gomitolo di giorni,
questo groviglio di lontananze,
questo confondersi di segni;
portano in seno l’intramontabile
speranza del futuro,
la linea d’ombra che divide
quello che è falso e quel che è vero.
Le mie donne, secondo la canzone omonima di Roberto Vecchioni di pochi anni fa, hanno questo effetto sulla vita degli uomini. Sono il miracolo del quotidiano, dove i legami altrimenti non saprebbero arrivare. Dove gli uomini non vorrebbero bussare. Dove i compagni non vorrebbero entrare. Anche il regista francese Claude Leoluch, alle porte degli ottant’anni, sente il bisogno di dire la sua e dichiara spavaldo – almeno nella traduzione italiana del titolo – “Parliamo delle mie donne”.
Di quelle donne che vengono dismesse, una dopo l’altra, perché l’uomo non trova pace; di quelle figlie che vengono messe al mondo di legame in legame con l’obbligo di apprezzare una famiglia allargata a dismisura. O di quelle donne che ad un certo punto della vita ti fanno venire voglia di fermarti, di non cercare ancora, di bastarsi e affrontare il dramma dell’amore. Una di queste ha il volto di Sandrine Bonnaire capace di mettere all’angolo il fotografo Jacques Kaminski (Johnny Hallyday), incallito collezionista di macchine fotografiche e di matrimoni da cui uscire con eleganza. Quando trovi una di queste meraviglie l’orologio si ferma: la vita è finita; alla città si preferisce la montagna; la famiglia acquista improvvisamente un senso non rimandabile. Sono quella linea d’ombra – canta Vecchioni – da “quello che è falso e quel che è vero”. Alla fine tutte le donne diranno a Jacques – come nel titolo originale – “Salaud (bastardo), on t’aime”.