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Tre storie collocate nel medesimo luogo (l’Alter Botanischer Garten di Marburgo, in Germania), ma ambientate in epoche differenti e separate da oltre un secolo (la prima a inizio ‘900, la seconda negli anni ’70, la terza al giorno d’oggi); tre vicende fotografate in maniera diversa ma liricamente connesse da una regia e da un montaggio fluidamente sincronizzati; tre personaggi all’apparenza scollegati ma assai ben interpretati (con il notevole contributo di Tony Leung) il cui fil rouge sta nel rapporto che ognuno di essi intrattiene con le piante, in particolare con un albero Gingko biloba e con un geranio. È attraverso questa partitura ternaria che si sviluppa Silent Friend, l’ottavo lungometraggio diretto da Ildikó Enyedi, che qui torna a firmare uno script originale dopo la fallimentare parentesi del precedente Storia di mia moglie, tratto appunto da un testo preesistente. Un’operazione che riporta l’autrice ungherese ai temi, allo stile e agli alti esiti di Corpo e anima, il film del 2017 con il quale ha trionfato alla Berlinale e che con Silent friend condivide il medesimo orizzonte progettuale, quello di filmare l’invisibile. Quello di Enyedi è infatti un cinema eccentrico, alchemico, decisamente non allineato alla produzione contemporanea, che fa delle nuance emotive e della narrazione non lineare la propria sintassi. Un cinema spirituale e meditativo, in grado di far sorridere e far riflettere, di ritrarre e di evocare, ma soprattutto coraggioso nell’esplorare zone poco o per nulla battute, nel produrre correspondances, nel restituire serenità. Un cinema riparatore, dal potere taumaturgico che, al di là della sua rarità, è bene non lasciarsi sfuggire.