Il regista e attore Amarsaikhan Baljinnyam de L’ultima luna di settembre nei primi istanti del film, in una sorta di vera e propria condensazione della sua istanza narrativa, ritrae la paralisi del suo protagonista in bilico tra l’esperienza filiale e l’orizzonte della paternità. Le due dinamiche sono unite da un montaggio che chiaramente ci chiede di sentirle insieme, di tenerle intrecciate come un unico processo di vita, una naturale evoluzione dell’esistenza.

Ciò che colpisce è la matrice di tutti questi legami: non si tratta di parentele biologiche. La dinamica affettiva di cura qui supera, oltrepassa letteralmente, la linea del sangue. Si ama, nella concretezza dei gesti e dei beni, i figli che la vita consegna a ciascuno. Si ereditano armoniche al posto di pecore, armoniche che smettono di essere suonate per ritornare suono rinnovato di altre paternità ancora una volta non biologiche. Si lavano piedi che hanno percorso il cammino della vita per aprire nuovi sentieri.

Che nessuno rimanga senza un padre. Che nessuno rimanga senza un figlio. Che non si compia questo peccato. Non esistono bastardi frutto del piacere di una notte, ma figli da amare? Bastardi siamo noi se non accettiamo le chiamate dei padri e dei figli? Figli di chi? Pazienza, non avremo risposta. Poco aggiunge. Non è il cuore della faccenda di questa storia ambientata in Mongolia. Il regista-sceneggiatore mette l’accento sul presente di questi figli: non ricada su di loro nessuna colpa di gestazione, ma solo l’affetto che qualcuno saprà sentire e donare loro.

Bisogna, quindi, diventare adulti entro l’ultima luna piena di settembre? Lasciarsi tagliare come il fieno per un nuovo inverno? Il tempo non è infinito. È ora di crescere, senza titubanza. L’adulto è colui che sa accompagnare il padre al passaggio finale, accettare un nuovo corso per sé ormai orfano ma al contempo accogliere il figlio (peraltro non biologico) che a sua volta è orfano di padre. Quante nascite si mescolano alle lacrime della morte anche nelle nostre esistenze? Più spesso la vita porta l’ordine delle cose nel disordine degli accadimenti? Da quale orologio, Signore, dobbiamo lasciarci parlare?

La pochezza dei mezzi delle vite narrate in L’ultima luna di settembre ci obbliga, quantomeno ci aiuta, a fare i conti con le domande interiori più forti, più essenziali. La pulizia dalla bulimia materiale della contemporaneità ci viene subito incontro all’inizio del film con  un cellulare appeso nel vuoto e una lettiga appoggiata sul carro. Si fatica a prendere il segnale. L’unico fine ultimo di questi tentativi di comunicazione è ricongiungersi prima che sia troppo tardi. Quello che dovevo dire te l’ho detto, chiosa il messaggero. Ora tocca a te, tocca alla tua coscienza di figlio, di uomo.

Ma il film non demorde. Lancia il cuore oltre l’ostacolo. E che non ti venga in mente, infatti, di trincerarti offeso nell’affetto perfetto che la vita non ti ha riservato. Un padre severo fortifica il figlio? Comunque sei stato amato? Forse non come volevi… Come dice un altro film sulla genitorialità non biologica “quando si ama, se sbaglia” (alla romana, in Il più bel secolo della mia vita).

Non fare i capricci Tulga! Non è più il tempo solo dell’essere figlio. È arrivato il tempo dell’essere padre che prende la difese del più piccolo, dei più piccoli per lasciarsi alle spalle i suoi vuoti. In quel lasciar andare danza leggiadra nell’eternità la richiesta accordata ad un padre congedatosi con la sobrietà di un “perdonami”. Un’eredità pietosa o una pìetas da ereditare?

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Sull'autore

Arianna Prevedello

Scrittrice e consulente, opera come animatore culturale per Sale della Comunità circoli e associazioni in ambito educativo e pastorale. Esperta di comunicazione e formazione, ha lavorato per molti anni ai progetti di pastorale della comunicazione della diocesi di Padova e come programmista al Servizio Assistenza Sale. È stata vicepresidente Acec (Associazione Cattolica Esercenti Cinema) di cui è attualmente responsabile per l’area pastorale.