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VIRGIN MOUNTAIN (Dagur Kári)
Un intimo solidarismo sotto il freddo cielo d’Islanda

VIRGIN MOUNTAIN

Fúsi è un quarantenne che non ha ancora trovato il coraggio di entrare nel mondo degli adulti. Conduce una vita solitaria, dominata dalla routine: pur lavorando in aeroporto come addetto ai bagagli, vive con la madre; passa il tempo libero con l’unico amico di cui dispone giocando alla guerra su un plastico che rievoca la battaglia di El Alamein; ascolta musica heavy metal richiedendola al proprio deejay radiofonico preferito; va a mangiare da solo, un giorno a settimana, al ristorante thailandese. Fino a quando nella sua monotona esistenza entrano inaspettatamente una donna estroversa e una bambina curiosa …

C’è una calda, insospettata umanità sotto il freddo cielo d’Islanda. L’avevamo capito dal finale di Rams, il film di Grímur Hákonarson vincitore nel 2015 a Cannes del Certain regard, quando i due litigiosi fratelli pastori si abbracciano, mettendo da parte ogni rivalità, per sopravvivere a una furiosa tempesta di neve. Lo possiamo riconfermare sui titoli di coda di Virgin Mountain, il nuovo film di Dagur Kári, il regista di Noi Albinoi (2003), Dark Horse (2005) e The Good Heart (2009), storia di ammirevole riqualificazione umana e di tenero recupero affettivo.

In novanta minuti di proiezione, infatti, la distanza relazionale che separa il timido, corpulento protagonista da una comunità estranea alla sua sensibilità di bambino mai cresciuto viene annullata da sentimenti puri e da gesti disinteressati. Come nei suoi lungometraggi precedenti, anche in Virgin Mountain il regista islandese porta sullo schermo anime fragili, non omologate, osservandole con affettuoso distacco e sottile ironia. La “montagna vergine” rappresentata dal remissivo Fúsi, totalmente inesperto di affari di cuore, vacilla quando è “scalata” da altri outsider come lui, altrettante monadi vaganti: una bimba di otto anni, vicina di condominio, e una fioraia che va a lezione di balli western. La prima in cerca di una prossimità genitoriale spezzata dalla separazione tra i coniugi, la seconda in balia della propria instabilità identitaria.

Sulla scia del cinema di Kaurismaki (ma meno programmatico ideologicamente), Virgin Mountain persegue un’idea di intimo solidarismo capace di coniugare una anonima quotidianità con una decisiva presa di coscienza. Caratteri semplici, quelli che popolano il film di Dagur Kári, ma mossi da psicologie complesse. Perché anche la guerra simulata nel soggiorno di casa può servire per fare la pace con la vita. Quella vera. Così lontana, eppure così vicina.

 

Regia: Dagur Kári

Nazionalità: Islanda, 2015

Durata: 89′

Interpreti: Gunnar Jónsson, Ilmur Kristjánsdóttir, Sigurjón Kjartansson, Franziska Una Dagsdóttir

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Sull'autore

Paolo Perrone

Giornalista professionista, critico cinematografico, curatore di rassegne e consulente alla programmazione, è direttore responsabile della rivista Filmcronache e autore di numerosi saggi sul cinema. Per Le Mani ha scritto Quando il cinema dà i numeri. Dal mathematics movie all'ossessione numerologica.